Pensioni : dalla riforma Amato alle riforme Dini e Berlusconi

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Italia-attacchi contro le pensioni e legge del lavoro schiavista (da "Lutte de classe" n 76)
novembre 2003

Infatti è del 1992 il primo attacco contro il sistema delle pensioni dei lavoratori. Il governo socialista di Giuliano Amato decise allora una serie di misure comportando l'aumento progressivo dell'età della pensione, una revisione al ribasso del loro sistema di calcolo e la rimessa in discussione della loro rivalutazione in funzione dell'inflazione. Poi nel 1994 il primo governo Berlusconi a sua volta varò un progetto di riforma delle pensioni che scatenò, nell'autunno di quello anno, una serie di scioperi e manifestazioni. Con un governo indebolito, una maggioranza divisa, Berlusconi dovette finalmente dare le dimissioni a fine 1994, sei mesi dopo il suo arrivo al governo e senza essere riuscito a portare a termine questo attacco contro le pensioni. Un nuovo governo fu sistemato, sotto la presidenza di uno dei suoi ministri, Lamberto Dini. Questa volta, godeva dell'appoggio della sinistra e in particolare del Pds, il Partito democratico della sinistra, cioè l'ex partito comunista, preoccupato di dare prova della sua responsabilità e delle sue capacità di partito di governo.

Così all'inizio del 1995, pochi mesi dopo la caduta di Berlusconi, nasceva una "riforma Dini" del sistema delle pensioni, sostanzialmente simile a quella che Berlusconi non era riuscito ad imporre. Ma questa volta godeva dell'assenso del Pds e delle confederazioni sindacali, che affermavano che era una "buona riforma", solo perché Dini godeva del loro sostegno e si era prestato alle negoziazioni con i dirigenti sindacali. Così la questione delle pensioni fu l'occasione, per questa sinistra di governo, di dimostrare che grazie al suo atteggiamento di difesa responsabile dell'interesse della borghesia, essa poteva essere un fattore di pace sociale, mentre la destra berlusconiana al potere poteva essere un fattore di confronto e di tensioni.

Il risultato di questo abile raggiro, comunque, fu un deterioramento delle condizioni in cui i lavoratori possono andare in pensione. L'ammonto delle pensioni veniva ormai calcolato non più con riferimento agli ultimi salari pagati, ma con riferimento all'insieme delle quote pagate nel corso della carriera salariata. Al posto di pensioni pari all'80% circa dell'ultimo salario, i pensionati non ne percepivano più ormai che il 60% o il 70%. L'età per andare in pensione e gli anni di contributi necessari aumentavano progressivamente. Ma lo Stato e il padronato raggiungevano i loro obiettivo, cioè diminuire il costo delle pensioni dei lavoratori per loro.

Finalmente nel 1996, dopo l'intermezzo del governo Dini, nuove elezioni portarono al parlamento una maggioranza di sinistra. Salutato dai rappresentanti più autorevoli del gran capitale, un governo di centrosinistra fu sistemato, con alla testa il democristiano Romano Prodi, comportando una maggioranza di ministri Pds e godendo anche dell'appoggio del Partito della Rifondazione Comunista. Poi nel 1998, il ritiro del sostegno del PRC a Prodi fu l'occasione di una scissione di questo partito e di una crisi che questa volta portò al governo il principale dirigente del Pds Massimo D'Alema.

I cinque anni di governi di centrosinistra, dal 1996 al 2001, dovevano essere particolarmente nefasti per i lavoratori. Furono segnati dalla politica di austerità mirando a ridurre il disavanzo dello Stato per sottomettersi ai criteri del patto di stabilità europeo, dal blocco dei salari, dal lancio del "pacchetto Treu", serie di misure instaurando una deregolamentazione del mercato del lavoro col pretesto di sostenere l'occupazione, e dalle dichiarazioni trionfali di D'Alema davanti un'assistenza di padroni, affermando che ormai in Italia, era finita col posto di lavoro fisso. Ci furono anche il degrado crescente dei servizi pubblici, la rapida degradazione delle condizioni di lavoro e di vita delle masse popolari, l'impoverimento di strati interi della società mentre i profitti padronali crescevano in modo indecente. E fu in un clima di rancore e di delusione in seno ai ceti popolari che la coalizione dei partiti di destra diretta da Berlusconi poté vincere le elezioni della primavera 2001. Questo magnate dell'audiovisivo, simbolo dell'arricchimento facile di un padronato senza scrupolo, tornato al potere rafforzato e trionfante, poteva ringraziarne questa sinistra di governo che, durante cinque anni, aveva cantato le lodi dell'impresa, del mercato e del profitto e preparato così bene il suo ritorno.

Però, certamente istruito dalla scottante esperienza del suo primo governo del 1994, Berlusconi all'inizio si dimostrò piuttosto cauto. E se oggi si lancia in un nuovo attacco contro le pensioni, lo fa sotto pressione del padronato, da un lato, che ritiene che le condizioni sono favorevoli per diminuire ancora le spese che queste possono rappresentare, ma anche perché ha potuto convincersi che l'opposizione delle confederazioni sindacali sarà solo simbolica.

L'atteggiamento di queste ultime, dalla sistemazione del suo governo nel 2001, non comporta infatti niente che possa veramente fare temere a Berlusconi di vedere riprodursi l'autunno movimentato del 1994. Questo si è potuto vedere, appunto, nel loro modo di rispondere all'altro capitolo dell'offensiva del governo : la deregolamentazione del mercato del lavoro.

Il caso dell'"articolo 18"

Eppure il 23 marzo 2002, la Cgil organizzava a Roma una manifestazione enorme. Si disse che tre milioni di manifestanti erano riuniti quel giorno e, anche se questa cifra era sicuramente sopravvalutata, questo non diminuiva per niente il successo di questa manifestazione. Era la dismostrazione della capacità di mobilitazione della CGIL e, al tempo stesso, della sensibilità di una gran parte dei lavoratori al tema alla base della manifestazione: la lotta contro la crescente precarietà del lavoro.

L'obiettivo della manifestazione era la difesa dall'articolo 18. Questo articolo di legge, incluso nello statuto dei lavoratori del 1970 che fa da punto di riferimento a gran parte delle leggi sociali, vieta i licenziamenti abusivi e costringe il datore di lavoro, nelle imprese di più di quindici salariati, a reintegrare il salariato licenziato senza giusta causa. L'articolo 18 è da tempo nel mirino di un padronato avido di poter licenziare senza intralci, e quindi anche in quello del governo Berlusconi, dopo di essere stato, tra l'altro, in quello dei governi di centrosinistra.

Così si vide il segretario della Cgil Sergio Cofferrati dare prova di un sorprendente radicalismo di cui la Cgil, in più di 20 anni di politica di concertazione aperta con la borghesia, aveva più che disabituato le sue truppe. Cofferati proclamò che non avrebbe lasciato che si toccasse l'articolo 18 e che la Cgil, per questo, sarebbe andata fino allo sciopero generale, compreso se le due le altre grandi confederazioni, Cisl e Uil, non l'avessero sostenuta. I partecipanti della manifestazione del 23 marzo poterono ascoltare il discorso di un Cofferati trasformatosi in un difensore dei diritti di tutti i lavoratori e della gioventù minacciata di precarizzazione. E il 16 aprile successivo si svolse una giornata di sciopero generale, alla quale questa volta la Cisl e l'Uil dovettero chiamare, per non essere di meno dopo il successo della manifestazione.

Eppure i limiti della determinazione della Cgil erano già visibili, fosse solo negli obiettivi portati avanti. Difatti se Cofferati denunciava giustamente la precarizzazione e la flessibilità crescente delle condizioni di lavoro -alle quali la Cgil aveva pure contribuito dando la sua legittimazione al "pacchetto Treu" deciso sotto il governo Prodi-, la difesa dell'articolo 18 non rispondeva che parzialmente a questo problema.

E infatti, già da tempo, l'articolo 18 era diventato un simbolo più che una realtà. I padroni italiani, con assenso dei governi, avevano moltiplicato i mezzi per aggirarlo, fosse solo col moltiplicare in seno ad una stessa impresa gli statuti diversi dei lavoratori. I lavori di pulizie, o per esempio di caricamento e di scaricamento, venivano affidati a delle "cooperative". I lavoratori di queste cooperative non erano più, sulla carta, che dei soci e non dei salariati, pagati 20% o 30% in meno rispetto a quelli dell'impresa stessa. Pezzi interi delle imprese ne venivano distaccati e trasformati, senza che i lavoratori coinvolti cambiassero di posto di lavoro, in imprese d'appalto, e anche qualche volta considerati come parti di un'altra categoria professionale e quindi dipendendo di un altro contratto di categoria. Alcuni lavoratori qualificati erano incitati a trasformarsi in lavoratori autonomi, pagati forfetariamente ma dovendo poi pagare loro stessi l'Iva e gli oneri sociali. Venivano istituiti i Contratti di formazione-lavoro (CFL) che permettevano di assumere giovani lavoratori alla prova durante un anno o due anni beneficiando di aiuti dello Stato. Tutto questo senza parlare del ricorso al lavoro nero, da molto tempo massiccio in alcune regioni e in particolare nel sud.

Finalmente ci fu il pacchetto Treu che nel 1997 istituì il lavoro interinale, che fino a questa parte non era autorizzato ufficialmente in Italia perché contrario alle norme di legge che vietavano le intermediazioni sul mercato della manodopera. Così una prima breccia veniva fatta in questa legge. Al tempo stesso, sempre col pretesto di aiutare l'occupazione, la legge moltiplicava le possibilità per le imprese di assumere in deroga ai contratti di categoria ; tutto questo con l'accordo dei partiti di sinistra, allora al governo, e delle confederazioni sindacali.

In queste condizioni, lanciare la lotta contro la precarizzazione crescente del lavoro intorno alla sola questione dell'articolo 18, mentre già tantissimi lavoratori non erano più protetti da questo articolo, significava porre solo una parte del problema.

Nel luglio 2002, padronato e governo firmavano un accordo separato con le confederazioni Uil e Cisl. L'articolo 18 veniva sospeso "a titolo provvisorio" per le imprese che, assumendo, avrebbero varcato la soglia di quindici salariati dal quale veniva applicato. La Cgil rifiutò di fermare l'accordo ma si guardò bene dall'indicare un'altra prospettiva ai lavoratori, nonostante questi fossero stati in tanti a rispondere alla mobilitazione della primavera 2002. Tra l'altro, Cofferati arrivava alla fine del suo incarico di segretario generale della Cgil all'autunno 2002. Il suo successore alla testa della confederazione, Guglielmo Epifani, garantì il seppellimento definitivo della lotta per l'articolo 18 con giornate di azioni senza seguito.

L'operazione Cofferati e il referendum del giugno 2003

Cofferati nel frattempo si preoccupava del suo futuro politico. Dopo anni passati a condurre alla testa del Cgil una politica di capitolazione davanti alle esigenze padronali, le giornate del 23 marzo e del 16 aprile gli avevano dato a buon conto l'immagine di un dirigente sindacale preoccupato dei diritti dei lavoratori. Fece allora il necessario per fare fruttare questo capitale. Prima dichiarò che non aveva nessuna ambizione e chiedeva solo a riprendere il suo posto originale di tecnico alla Pirelli di Milano. Poi, qualche mese dopo, provò ad apparire come un possibile dirigente della sinistra in caso di un suo ritorno al governo, e finalmente si dichiarò candidato del centrosinistra a sindaco di Bologna. L'accesso di radicalismo di Cofferati sboccava su una pietosa operazione politicista.

A questa operazione se ne aggiungeva un'altra. Il Partito della Rifondazione Comunista, anche lui, faceva dell'articolo 18 un cavallo di battaglia. Utilizzando la legge che in Italia permette di farsi promotore di un referendum su un articolo di legge a patto di raccogliere per questo 500 000 firme su scala nazionale, lanciava la campagna per un tale referendum chiedendo l'estensione dell'articolo 18 all'insieme delle imprese comprese quelle di meno di quindici salariati.

Il lancio di questo referendum fu per il suo principale sostenitore, il segretario del PRC Fausto Bertinotti, l'occasione di lodi da parte di tutta la stampa per "l'abiltà" della manovra. Difatti, al momento in cui Cofferati provava a darsi l'immagine di un possibile leader della sinistra, più preoccupato delle questioni sociali dei suoi predecessori, Bertinotti in qualche modo lo scavalcava a sinistra. Metteva Cofferati e tutti i dirigenti della sinistra con le spalle al muro. Non potevano sostenere il sì all'estensione dell'articolo 18 all'insieme delle imprese senza discreditarsi agli occhi dell'insieme del padronato come possibili candidati al governo della borghesia. Ma non sostenere il sì significava confessare davanti all'insieme dei lavoratori coscienti che rinunciavano a difendere la rivendicazione di un impiego stabile e non precario.

E infatti, lanciata la campagna per il referendum, si videro i Ds dividersi sulla questione per finire col non dare nessuna consegna di voto, e il cosiddetto difensore dei diritti dei lavoratori Cofferati dichiarare "a titolo personale" che non avrebbe votato sì, cioè che si sarebbe astenuto. La Cgil stessa, dopo molte esitazioni, finiva col chiamare fiaccamente a votare sì, ma guardandosi bene dall'impegnarsi in una vera campagna per la vittoria del sì. Difatti, dalla sinistra di governo alla destra, ognuno alla fine concludeva che l'astensione era la soluzione migliore per assicurare il fallimento del referendum, poiché per essere valido questo doveva raggiungere il 50% di partecipazione.

Se si trattava di mettere in difficoltà i suoi concorrenti, mettendoli con le spalle al muro e svelando le loro ambiguità, la manovra referendaria di Bertinotti poteva infatti meritare la qualifica di "geniale" datale da gran parte della stampa. Ma lo era solo da un punto di vista politicista, e non dal punto di vista della difesa dell'interesse dei lavoratori.

In fondo, era solo la reciproca dell'operazione di Cofferati, tendendo anche questa a spostare la battaglia contro i licenziamenti e la precarietà dal terreno della manifestazione e della lotta al terreno elettorale. Ma sottomettere una questione portando sull'interesse di classe dei lavoratori ad un referendum dell'insieme degli elettori significava che questi diventavano arbitri di questi diritti. Così l'insieme dei padroni e dei ceti piccolo-borghesi, che possono benissimo essere maggioritari nell'elettorato, potevano decidere "democraticamente" che era normale sfruttare i lavoratori senza riconoscergli nessuno diritto.

Già una precedente esperienza ha lasciato uno scottante ricordo nella classe operaia : nel 1984, mentre i lavoratori si mobilitavano contro la decisione del governo Craxi di rimettere in discussione il meccanismo di scala mobile che garantiva i salari contro l'inflazione, la Cgil trovò il modo di sviare l'aspirazione allo sciopero generale contro Craxi verso il ricorso al referendum. Quindi il cosiddetto referendum dei "quattro punti di scala mobile" ebbe luogo... e ne risultò un'approvazione maggioritaria dell'elettorato a questo attacco del governo contro i salari dei lavoratori. Con questa manovra, la Cgil aveva non solo sabotato lo sciopero generale, aveva anche permesso agli elettori borghesi e piccolo-borghesi di dare una legittimazione "democratica" all'amputazione dei salari operai.

I dirigenti di Rifondazione comunista non ebbero cura di questa esperienza passata, e si ripiegarono a loro volta sull'operazione referendaria. Avevano ricorso a questo vecchio procedimento, utilizzato da tempo e in tutti i modi dalle forze politiche in cerca di iniziative, perché erano incapaci di proporre una vera prospettiva di lotta ai lavoratori. Invece di spiegare loro che l'unica questione era quella del rapporto di forze, e che anche in caso di vittoria al referendum, in mancanza di questo rapporto di forze a favore dei lavoratori la borghesia avrebbe trovato tutte le possibilità di aggirare la legge come già lo fa da anni ; invece di spiegare che i lavoratori devono innanzitutto contare sulla forza che rappresentano nelle fabbriche e nelle piazze ; invece di provare ad appoggiarsi sulla corrente formatasi nelle manifestazioni del 23 marzo e del 16 aprile per provare a sviluppare le lotte operaie e rovesciare il rapporto di forze a favore dei lavoratori, i dirigenti del PRC non trovavano niente altro da proporre che una di queste operazioni elettoralistiche di cui la sinistra italiana ha la specialità -con tante altre, è vero.

Infatti il vero obiettivo di Bertinotti in questa operazione non era la difesa di un diritto operaio, bensì la competizione con i suoi concorrenti in seno alla sinistra per le prossime alleanze elettorali e per proporre un'alternativa al governo Berlusconi. Lo si vide all'indomani del referendum. Il suo risultato fu un fallimento poiché raccolse solo il 25,7% di partecipazione, quindi senza raggiungere il quorum del 50% necessario. Ma lo stesso ci fu una grande maggioranza di sì (87,3%), poiché tutti i suoi avversari avevano piuttosto scelto la tattica dell'astensione, e si vide Bertinotti dichiarare trionfalmente che bisognava "ripartire dagli 11 milioni di sì" che si erano espressi nelle urne. E non si trattava ovviamente per Bertinotti di "ripartire" per la lotta, bensì di costringere i suoi possibili partner in seno alla sinistra a tener conto del ruolo di eventuale guastafeste di Rifondazione comunista, dandogli un posto a sua misura.

Sicuramente l'operazione è riuscita dal punto di vista di Bertinotti, giudicando dalle discussioni per le prossime alleanze elettorali a sinistra, nelle quali i Ds e i loro partner sembrano pronti a dare un posto al PRC ed anche a prevedere per lui posti di ministri. Ma dal punto di vista della difesa dei diritti dei lavoratori, questo ha anche contribuito a portare in un vicolo cieco la mobilitazione cominciata nel marzo 2002 con la manifestazione di Roma. E il governo Berlusconi lo ha capito bene, ritenendo che poteva lanciarsi in una nuova deregolamentazione del mercato del lavoro senza dover temere di affrontare reazioni, manifestazioni o scioperi.

La legge 30/2003, alla discrezione dei padroni

La legge 30/2003, entrata in vigore nel mese di settembre, non ha più bisogno di prendersela con l'articolo 18 : istituisce semplicemente i milleuno modi di aggirarlo con "nuove forme di lavoro" che sono un bel campione dell'inventiva dei padroni quando si tratta di ridurre i loro dipendenti allo stato di lavoratori servili senza diritti né garanzie. Ci si trova infatti :

- Il lavoro "a chiamata". Questo consiste, in cambio di un modesto indennizzo, nel dichiararsi disponibile per un datore di lavoro. Il lavoratore deve rispondere ad ogni momento alla chiamata del padrone se questo ha bisogno di lui. Così il datore di lavoro può disporre di manodopera quando ne ha bisogno, pagandola solo con un indennizzo irrisorio nei periodi di minore produzione in cui la lascia a casa.

- Il lavoro "a coppia", o "job-sharing" nel linguaggio dei padroni italiani a chi piace tanto il ricorso alle parole inglese per dare un aspetto moderno a ciò che non è altro che un ritorno al XIX secolo, consiste in un contratto per un solo posto di lavoro e un solo salario, ma impegnando due persone : se una si ammalata, l'altra la deve sostituire. Così i problemi di assenteismo sono risolti al costo minore. E ovviamente, dal punto di vista dell'articolo 18 e della soglia di quindici salariati dal quale viene applicato, i due lavoratori del "job sharing" contano solo per uno.

- Lo "staff-leasing", o affitto di manodopera, viene autorizzato, togliendo al ricorso al lavoro interinale i limiti di tempo che comportava. Ormai si potrà essere interinale a tempo indeterminato : i datori di lavoro potranno avere tra il loro personale un volante permanente di interinali, senza neanche dover interrompere il loro contratto ogni sei mesi... ma senza che per tanto questi abbiano più garanzie.

- Il "lavoro a progetto" istituisce dei "collaboratori" assunti in funzione di un progetto, o dichiarato tale, per la durata di questo progetto. Al termine, questi perdono il loro posto di lavoro senza nessuno diritto. Il "contratto di progetto" comporta, tra l'altro, la dichiarazione che si tratta di un lavoro autonomo e non dipendente, e quindi la rinuncia in anticipo ad ogni ricorso contro il datore di lavoro. Ma niente limita il datore di lavoro, per esempio, se vuole definire un posto di lavoro come un "progetto", e quindi a tempo determinato... anche se si ripeta regolarmente ogni mese o ogni giorno.

- La cessione di rami d'azienda viene facilitata. Basterà adesso, per esempio per separare giuridicamente un reparto o un settore dal resto dell'impresa, dimostrare che dispongono di una "autonomia funzionale" rispetto a questa. Questo è aprire la strada alla frammentazione dell'impresa in piccole unità, formalmente autonome, permettendo ai padroni di scendere sotto le soglie sociali -tra l'altro quella dei quindici salariati dell'articolo 18.

- La legge permette l'istituzione di uffici di collocamento privati, sopprimendo il monopolio dello Stato in materia e la legge vietando l'intermediazione di manodopera. Questo vuol dire restaurare il caporalato, scomparso grazie alle lotte dei lavoratori agricoli, col quale un intermediario s'incaricava di fornire manodopera ad un datore di lavoro, prendendo nel frattempo la sua remunerazione e lasciando ai lavoratori così assunti solo una paga misera.

In fine, altre norme di legge sopprimono gli ostacoli al lavoro a tempo parziale o, al contrario, per il ricorso agli straordinari.

La legge 30/2003, come si vede, rimarrà sicuramente famosa come un vero catalogo dei desideri padronali e come un ritorno indietro di 100 anni in materia di condizioni di assunzione di lavoratori. La passività delle confederazioni sindacali è tanto più scioccante, neanche un anno e mezzo dopo lo sciopero generale per la difesa dell'articolo 18.

Salari al ribasso

Il borghesissimo quotidiano "Corriere della Sera" constatava in un'inchiesta del 5 novembre 2003 la perdita generale di potere d'acquisto da parte dei salariati : mentre l'inflazione diventa più evidente, tra l'altro dopo l'introduzione dell'euro, i salari non aumentano, neanche per quelli che hanno un posto di lavoro stabile e senza neanche parlare dei salari miseri percepiti dai lavoratori precari dei vari statuti. Il giornale valutava al 9,2% la perdita di potere d'acquisto del salario operaio fra il 2000 e il 2003, e al 13,2% la perdita di potere d'acquisto degli impiegati.

Infatti ridurre i salari è il principale obiettivo a cui mira la borghesia italiana. Questo obiettivo è ovviamente comune a tutte le borghesie, ma la borghesia italiana è abituata a cercare di mantenere rispetto alle sue concorrenti d'Europa il vantaggio di salari relativamente più bassi. Tradizionalmente raggiungeva questo obiettivo con le svalutazioni successive della sua moneta, le cosiddette "svalutazioni competitive" che causavano la cronica debolezza della lira. L'istituzione della moneta comune europea non consente più lo stesso gioco, allora i padroni italiani trovano altri mezzi per imporre un ribasso dei salari reali.

Le argomentazioni per giustificare l'aumento dell'età della pensione e della durata dei contributi necessari sono gli stessi che negli altri paesi. Ma non più che in Francia o altrove si tratta di imporre veramente la presenza di operai al lavoro fino a 65 anni, mentre i padroni li espellono ben prima perché ritengono che non sono più abbastanza produttivi. Si tratta in realtà di imporre un ribasso delle pensioni effettivamente pagate.

Una battaglia è anche in corso intorno al TFR, la "liquidazione" pagata ai lavoratori che lasciano un'impresa e che, fin tanto che sono dipendenti dell'impresa, viene versata su un fondo speciale gestito dal datore di lavoro. Le compagnie di assicurazioni, gli organismi padronali e anche gli organismi sindacali si contendono l'appropriazione della gestione di questi fondi, che così potrebbero fungere da fondi di pensione integrativi. Difatti, tramite il TFR o in modo indiretto, si tratta di introdurre il sistema dei fondi pensione, costringendo i lavoratori ad imporsi un contributo supplementare se vogliono beneficiare di una pensione decente, una pensione di cui non avrebbero neanche la garanzia e che sarebbe sottomessa ai balzi dei mercati finanziari. Molti pensionati americani, della Enron o di altre dite, ne hanno già fatto l'amara esperienza.

L'attacco contro le pensioni, la legge di deregolamentazione del mercato del lavoro, il ribasso dei salari reali, fanno parte di un'insieme. I governi italiani se la prendono in modo sistematico ai lavoratori, smantellando il cosiddetto Stato sociale -previdenza sociale, pensioni, sanità, servizi pubblici- e le tutele e gli acquisti ottenuti dai lavoratori in decenni di lotte. L'inizio di quest'offensiva risale a più di venti anni fa, venti anni durante i quali i governi sono stati più spesso governi di centrosinistra, beneficiando del sostegno dei partiti di sinistra, che governi di destra. Il più spesso, fu l'appoggio aperto dato dalle confederazioni sindacali a questa impresa di demolizione, a contribuire a demoralizzare i lavoratori e a fermare le loro reazioni, questo accompagnato dalla cosiddetta ideologia modernista propagata dai principali dirigenti della sinistra, in particolare quelli dell'ex partito comunista. Diventati Pds, poi semplicemente Ds, questi hanno osannato le leggi del mercato e la deregolamentazione, o addirittura il contratto di lavoro "individuale" ed "autonomo", come se questo potesse essere liberamente scelto. In realtà, rispondevano innanzitutto ai desideri del padronato, pur garantendogli la pace sociale e finalmente aprendo largamente la strada a Berlusconi e ai suoi compari di estrema destra.

Rovesciare il rapporto delle forze

Oggi, tra i dirigenti dei partiti della sinistra, la concorrenza è stretta per sapere chi sarà alla sua testa e chi apparirà come un'alternativa a Berlusconi se la coalizione di destra risulta discreditata nell'elettorato. Ma nessuno si impegna a restaurare i diritti dei lavoratori ridotti durante tutti questi anni. E si capisce perché : sarebbe prendersela a ciò che, in 20 anni, è stato opera comune dei partiti di sinistra e dei dirigenti sindacali, alla pari -se non più- dei partiti di destra oggi al potere.

I dirigenti della sinistra si limitano a sperare che tra oggi e le prossime scadenze elettorali, il governo Berlusconi si sarà abbastanza discreditato ed avrà provocato abbastanza malcontento perché ci sia un ritorno elettorale riportando la sinistra italiana al potere. Forse sarà così, anche se non è sicuro. Ma comunque i lavoratori non hanno niente da sperare di un'eventuale ritorno al potere di questa sinistra che non rinnega niente della sua politica passata.

Ciò che la situazione mette di nuovo all'ordine del giorno per la classe operaia è la lotta per i diritti elementari di cui è stata progressivamente privata : il diritto ad un impiego e un salario decenti, la protezione contro i licenziamenti e la disoccupazione, il diritto alla salute, il diritto ad una pensione decente. Per ottenerli non può contare sulle abituali concertazioni intorno al tavolo tra padroni, governo è confederazioni sindacali. Queste sono innanzitutto preoccupate dei loro interessi d'apparato e di dare prova del loro spirito di responsabilità rispetto alla borghesia, se non di fare da pedana politica a dirigenti in cerca di carriera. Da venti anni e più la loro politica di "concertazione" ha consistito nel sancire, passo dopo passo, gli indietreggiamenti che la borghesia voleva imporre ai lavoratori. E purtroppo, il peso rappresentato dalle confederazioni, l'importanza del loro apparato, ne hanno fatto strumenti particolarmente efficaci per controllare e paralizzare le reazioni di difesa della classe operaia.

Per fermare la degradazione della condizione operaia che va avanti da 20 anni, ciò che bisogna mettere all'ordine del giorno è una riscossa generale. Ma un nuovo rapporto di forza non potrà costruirsi che in lotte, sul posto di lavoro e nelle piazze, che siano decise ad andare al di là delle abituali giornate orchestrate dalle confederazioni. Ci vorranno scioperi che si estendano da una fabbrica all'altra, da un settore economico all'altro e che convergano su obiettivi comuni ; ci vorranno manifestazioni che cancellino i limiti tra lavoratori precari e non precari, tra lavoratori occupati e disoccupati ; ci vorranno lotte nelle quali i lavoratori riapprendano a decidere, a dirigersi se stessi e a trovare il modo di superare, ad un momento o all'altro, le molteplici argini sistemate dagli apparati burocratici.

I lavoratori d'Italia hanno spesso dimostrato, all'occasione di manifestazioni come quella del 23 marzo 2002 o di altre, quale forza possono rappresentare su scala del paese. Hanno tutti i mezzi di rovesciare al loro vantaggio un rapporto di forze che, da anni, il padronato è riuscito a far evolvere a suo favore, e di incutere a questo padronato una paura salutare.

12 novembre 2003.