Testi del 37° Congresso di LUTTE OUVRIERE (da "Lutte de classe" n° 109 - dicembre 2007)

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Testi del 37° Congresso di LUTTE OUVRIERE
dicembre 2007

Il 37° congresso di Lutte Ouvrière

Questo fascicolo è la traduzione del numero 109 di Lutte de Classe di dicembre 2007 e gennaio 2008, interamente dedicato alla discussione e ai voti del congresso annuo della nostra organizzazione svoltosi nei giorni 1° e 2 dicembre 2007 in Saint-Denis.

Come ogi anno, in più dei delegati eletti nel corso delle assemblee locali preparatorie, parecchie centinaia di militanti hanno assistito al congresso. Infatti i nostri congressi sono aperti ai militanti nei limiti dello spazio disponibile. Ci teniamo a questa trasparenza delle nostre discussioni nei confronti di tutti i militanti, così come ci teniamo alla frequenza annuale dei nostri congressi. Numerose delegazioni hanno anche assistito al nostro congresso, venute dalla Guadalupa, dalla Martinica, dall'isola della Réunion, dal Belgio, dagli Stati-Uniti, dalla Costa d'Avorio, da Haiti, dalla Turchia, dall'Italia, dalla Spagna, dalla Gran Bretagna, dalla Germania.

La direzione uscente aveva sottomesso sei testi alla discussione e al voto :

- Situazione internazionale

- Situazione economica

- Situazione interna

- Il partito che vuole la LCR

- Influenza politica

- Comunali 2008

I compagni che undici anni fa avevano chiesto la possibilità di organizzarsi quale frazione autonoma in seno a Lutte Ouvrière hanno da parte loro sottomesso alla discussione e ai voti tre testi rispettivamente intitolati :

- I rivoluzionari e la controffensiva dei lavoratori

- Esplorare la possibilità di un nuovo partito rivoluzionario

- Comunali 2008 : l'occasione di una campagna politica dei rivoluzionari

Il congresso ha approvato all'unanimità quasi completa gli orientamenti della maggioranza uscente sulle questioni politiche come sull'attività. Il congresso ha eletto all'unanimità il comitato centrale che dirigerà l'organizzazione fino al prossimo congresso.

Situazione internazionale

Testo proposto dalla maggioranza, votato dal 97% dei delegati al congresso

La « mondializzazione", la "globalizzazione" dell'economia, l'apertura delle frontiere davanti alla circolazione dei capitali e in gran misura delle merci, l'interpenetrazione crescente delle economie non si traducono con l'emergenza di un ordine internazionale più stabile. Nonostante la divisione del mondo in due blocchi sia sparita con l'Unione sovietica, sono numerosi i focolai di tensione aperti o latenti. Non appena sembra che una tensione stia diminuendo, un'altra si accende. Nel momento stesso in cui l'inizio di una riconciliazione tra le due Coree e sotto gli auspici americani promette il riassorbimento di uno dei più vecchi focolai di tensione ereditati dalla guerra fredda, uno dei più fedeli alleati degli Stati Uniti, il Pakistan, minaccia di trasformarsi in un focolaio di agitazione islamista.

L'ordine imperialista mondiale viene costantemente rimesso in discussione dai sobbalzi che vengono dai popoli impoveriti e schiacciati, sobbalzi amplificati spesso dai maneggi delle potenze imperialistiche concorrenti e rivali.

Mai la contraddizione è stata così acuta, così tangibile, tra la necessità per i popoli di regolare di comune accordo i problemi scientifici, tecnici o ecologici, che possono solo essere risolti su scala mondiale e l'impossibilità di farlo in un sistema basato sulla proprietà privata, la concorrenza, la corsa al profitto e le rivalità che ne derivano. La "globalizzazione" imperialista non ha unificato il mondo. Ha solo allargato al livello dell'insieme del pianeta il campo in cui si scontrano i grandi gruppi capitalisti, in cui ognuno si serve degli Stati, a cominciare da quello dell'imperialismo da cui sono originati, o in mancanza di questo si serve delle bande armate etniche, claniche o religiose, presenti o suscitate nei paesi sottosviluppati.

Sotto il dominio imperialista, l'unificazione del mondo si esprime con le forme peggiori: la trasmissione quasi istantanea dei sobbalzi finanziari, oppure le ascese speculative dei prezzi delle derrate alimentari su qualche mercato finanziario dei paesi sviluppati hanno per conseguenza la condanna a morte di milioni di esseri umani supplementari.

Segno tangibile che la "globalizzazione" imperialista non è il preludio ad un avvicinamento tra gli Stati, le spese militari dopo di essere diminuite durante gli anni di decomposizione dell'ex Unione sovietica per raggiungere il loro livello più basso nel 1996 hanno ripreso la loro ascesa per tornare nel 2005 al livello che era stato raggiunto alla fine della guerra fredda. Hanno continuato a crescere con un ritmo rapido. Le spese americane per la difesa sono passate da 318 a 478 miliardi di dollari il 1996 e il 2005, ossia un aumento del 50% in nove anni.

Sono ovviamente gli Stati Uniti ad essere in testa a questa evoluzione, ma la tendenza è la stessa per la maggior parte dei grandi paesi.

Questa corsa alla fabbricazione di armi che prende una parte crescente in una produzione materiale che d'altra parte è stagnante, è il rifletto delle molteplici tensioni nelle relazioni internazionali, ma costituisce anche una necessità economica per la classe capitalista. Mentre i dirigenti politici predicano il liberalismo economico e fanno finta di opporsi agli interventi degli Stati, l'economia capitalista non potrebbe sopravvivere senza le industrie finanziate dagli Stati.

Il commercio delle armi è uno dei principali settori del commercio internazionale. L'imperialismo francese è, dopo gli Stati Uniti, uno dei principali intervenienti sul mercato delle armi, essendo il mercato del discount lasciato ad alcuni Stati risultanti dalla dislocazione dell'Unione sovietica, che svendono armamenti ereditati da un altra epoca, ed anche alla Cina.

E' anche il terreno di una concorrenza feroce tra grandi potenze, in cui ognuna cerca di proteggere sul mercato internazionale le sue Northrop Grunman, General Dynamics, Lockheed Martin dal lato americano, o i suoi Dassault o Lagardère dal lato francese. Con più o meno efficacia: così malgrado l'insistenza febbrile del suo rappresentante di commercio Sarkozy, Dassault non è riuscito a vendere al re del Marocco, pur generalmente piuttosto aperto alle proposte di Parigi, il suo aereo Rafale di ultima generazione, superato dagli F16 della Lockheed Martin. Fortunatamente per Dassault, lo Stato francese che già ha largamente contribuito finanziariamente all'elaborazione dei Rafale, è ancora lì come cliente -per ora l'unico. Lo Stato non ha denaro per la pubblica istruzione o per gli ospedali, ma ne ha sempre per Dassault.

Il pretesto politico di questa corsa agli armamenti, principalmente da parte degli Stati Uniti, è la lotta al terrorismo. Il pretesto è tanto più grossolano ancora di quello della possessione di armi di distruzione di massa che i dirigenti americani avevano attribuita a Saddam Hussein per giustificare l'invasione dell'Iraq.

Ci vuole il cinismo senza limiti dei dirigenti dell'imperialismo americano per invocare il pretesto del terrorismo, trattandosi per esempio del sistema di distruzione di missili nucleari in volo -il bersaglio antimissili- e del progetto di sistemarlo sul territorio della Polonia o della Repubblica Ceca.

La stampa mette spesso in rilievo il fatto che la Russia di Putin, approfittando dell'ascesa dei prezzi del petrolio e del gas e quindi della crescita dei redditi dello Stato, si mostrerebbe più aggressiva che all'epoca di Eltsin. Ma questa presentazione tendenziosa delle cose passa sotto silenzio l'installazione sistematica di basi militari americani nelle ex democrazie popolari e in un gran numero di Stati sorti dall'ex Unione Sovietica. La metà delle quattordici ex repubbliche sovietiche accolgono o progettano di accogliere delle basi americane. Senza parlare di tutti gli accordi di limitazione degli armamenti firmati in passato, nell'ambito di un altro rapporto di forze, tra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, e denunciati unilateralmente da questi ultimi (trattato Start sulla riduzione degli armamenti o trattato Abm sui missili antibalistici). Piaccia o no ai pacifisti ed altri cantori del disarmamento, questi trattati sono fatti per essere stracciati non appena il rapporto delle forze lo permette.

Con la scomparsa dell'unione sovietica, gli Stati Uniti sono diventati l'unica superpotenza del mondo e, in quanto tale, il custode supremo dell'ordine internazionale. I sedici anni scorsi da quando sono stati consacrati in questo ruolo dimostrano che, anche se hanno le mani più libere per intervenire militarmente, i loro interventi si sono in qualche modo tradotti dappertutto con un fallimento.

Sono innumerevoli i posti del pianeta dove gli Stati Uniti sono intervenuti, intervengono o progettano di intervenire direttamente o indirettamente con le loro proprie forze militari o con quelle di altri paesi, apertamente o tramite i loro servizi segreti. Ci limiteremo a quelli più importanti.

L'Iraq

Il fallimento più palese è ovviamente l'Iraq. Se l'esercito americano non ha avuto grandi difficoltà per evincere Saddam Hussein, non sono riusciti a stabilizzare il nuovo regime che hanno sistemato a Bagdad -quanto alla sua cosiddetta "democratizzazione", l'espressione è tragicomica tanto questa pretesa era solo propaganda grossolana!-, e di più hanno contribuito a suscitare una guerra civile che tentano di strumentalizzare ma sono incapaci di controllare.

L'Iraq sotto dominio della "grande democrazia americana" presenta il viso di un paese lacerato dalla rivalità delle milizie armate e dai conflitti tra le comunità nazionali o religiosi. Questo paese che era uno dei più prosperi del Medioriente, era già a stato considerevolmente impoverito dalla guerra che aveva dichiarata all'Iran, all'epoca sotto l'impulso degli Stati Uniti e con il loro appoggio, e poi dal primo intervento americano nel 1991 e dall'embargo economico successivo, prima di essere rovinato dai bombardamenti americani del secondo intervento. L'occupazione americana non ha posto fine a questa corsa verso l'abisso, ma l'ha accelerata. Le organizzazioni umanitarie stimano a 650 000 il numero dei morti iracheni, in maggior parte civili. Quasi la metà della popolazione sopravvive solo grazie alle razioni alimentari dell'assistenza internazionale, il sistema sanitario è stato smantellato, due terzi della popolazione non hanno accesso all'acqua potabile, l'approvvigionamento in elettricità è aleatorio e molto inferiore a quello dell'anteguerra.

Il prezzo pagato dalla popolazione irachena è certamente l'ultima delle preoccupazioni dei dirigenti americani. Ma il voltafaccia dell'opinione pubblica americana, sempre più ostile ad una guerra costosa in vite umane per l'esercito americano e anche costosa nel campo finanziario, gli pone qualche problema. Lo stato morale dell'esercito ne pone sicuramente ancora di più. Tra la guerra "fresca e allegra" dell'invasione -comunque per gli aggressori- fatta col bombardare dall'alto e senza grande rischio le città irachene, si è trasformata in una guerra d'occupazione con scontri sanguinosi, attentati suicidi, una guerra che forse durerà tanto quanto quella del Vietnam.

Visto la durata della guerra, sono stati più di un milione i soldati dell'esercito e più di 400 000 quelli della Guardia nazionale a servire per qualche periodo in Iraq. Quelli che ne sono tornati non hanno nessuna voglia di tornarci. Sembra che lo Stato maggiore abbia sempre più difficoltà a rinnovare l'organico. La durata di presenza in Iraq è stata portata da 12 a 15 mesi. Per trovare dei "volontari", l'esercito offre incentivi sempre più alti, oppure promette la cittadinanza agli immigrati. D'altra parte l'esercito fa sempre più largamente appello, compreso per le operazioni militari, a dei "contrattuali" assunti dalle compagnie di sicurezza private. Si stima il loro numero tra 30000 e 50000, circa un terzo dell'organico dell'esercito regolare.

L'amministrazione Bush è impegnata in una fuga in avanti, aumentando le spese dedicate alla guerra in Iraq con la complicità del partito democratico ormai maggioritario al congresso.

I dirigenti politici e militari dell'imperialismo americano devono barcamenarsi all'interno di una contraddizione. La presenza dell'esercito americano, invece di stabilizzare la situazione, al contrario la destabilizza. Ma al tempo stesso non può abbandonare l'Iraq lasciando dietro di sé il caos.

L'Iraq in quanto tale ha un'importanza maggiore per gli Stati Uniti, in ragione della sua ricchezza petrolifera e della sua posizione strategica. E' di più al cuore di questo Medioriente strapieno di petrolio e al tempo stesso complessivamente esplosivo.

E' probabilmente più difficile per gli Stati Uniti disimpegnarsi dal l'Iraq che non lo fu all'epoca per disimpegnarsi dal Vietnam: la loro importanza rispettiva non è certamente la stessa.

Seguendo una strategia frequente delle potenze imperialiste per dominare un paese, gli Stati Uniti si servono della divisione delle comunità religiose o etniche. Incapaci di insediare un esercito e una polizia nazionali che siano in grado di ristabilire e di stabilizzare l'ordine nel paese, gli Stati Uniti tentano di scommettere sulle milizie confessionali, tribali o etniche. Ne hanno fatto l'esperienza nella parte nord del paese, con la sua popolazione a maggioranza curda. Ma tale strategia implica la creazione di enclavi etniche o religiose più o meno omogenee.

Coll'utilizzare i sue conflitti comunitari, gli Stati Uniti li aggravano. Le truppe americane coprono le "pulizie etniche" -anche se l'espressione è poco appropriata- o addirittura ci partecipano. Questo prefigura una divisione di fatto del l'Iraq. Una stabilizzazione su questa base necessita però un accordo con gli Stati vicini, Turchia ed Iran principalmente, ambedue coinvolti direttamente o indirettamente nella guerra civile in Iraq e interessati dalle sue conseguenze possibili.

Le relazioni con Turchia ed Iran

La Turchia è certamente l'alleata e la subordinata degli Stati Uniti. E' però violentemente ostile all'emergenza nella parte nord dell'Iraq di uno Stato curdo che eserciterebbe un'attrazione sulla frazione curda della sua popolazione e potrebbe fare da base di ripiegamento ai gruppi armati nazionalisti curdi. Le attuali incursioni dell'esercito turco nella parte curda del l'Iraq dimostrano che una guerra tra la Turchia, principale alleata degli Stati Uniti nella regione, e il protettorato iracheno di questi ultimi non è inverosimile.

Non è detto che, dietro le sue rodomontate attuali contro l'Iran a proposito del nucleare, non si nascondano manovre miranti ad una riconciliazione. Ai tempi dello scià l'Iran era una dei principali pilastri dell'ordine regionale sotto egidio degli Stati Uniti.

L'interesse della borghesia iraniana è certamente la fine dell'attuale embargo economico. Che sotto questa pressione il regime iraniano sia disposto a riannodare delle relazioni con le potenze occidentali, questo è e tanto più possibile in quanto la rottura era venuta innanzitutto dagli Stati Uniti. Quanto a questi ultimi, non è certamente il carattere teocratico delle regime di Teheran a dare fastidio a loro, che si accomodano tanto bene di quello dell'Arabia Saudita.

Dall'Afghanistan...

Gli Stati Uniti fiancheggiati dai loro alleati, di cui la Francia, non sono neanche riusciti a stabilizzare la situazione in Afghanistan. Anche lì, sotto il governo Karzai presentato come democratico ma la cui autorità supera ben poco i limiti di Kabul, il paese rimane dominato da signori di guerra che imperano sui loro feudi rispettivi.

Non solo gli eserciti delle potenze imperialisti non sono riusciti a liquidare i talebani, ma di più l'occupazione del paese ha permesso a questi ultimi di presentarsi come dei resistenti e di condurre una guerriglia permanente con delle implicazioni destabilizzatrici per il vicino Pakistan.

...ad Haiti

Anche in Haiti, l'intervento dell'esercito americano nel febbraio 2004 non ha ristabilito la pace civile. Al contrario il paese non ha mai conosciuto tante violenze che durante i due anni che hanno seguito questo intervento, sia da parte dei gruppi armati che si riferiscono all'ex presidente Aristide, sia da parte di bande criminali. Le truppe d'occupazione dell'Onu che hanno dato il cambio all'esercito americano rappresentano l'ordine imperialista ma non hanno mai avuto l'obbiettivo di proteggere la popolazione stessa. Non fanno che aggiungere una banda armata di più a quelle che già imperversano nel paese. Se nel 2006 l'elezione alla presidenza di Préval, ex primo ministro di Aristide, ha fino ad un certo punto attenuato l'attivismo delle "chimere", bande di fautori dell'ex presidente, il paese più povero dell'emisfero americano continua a sprofondare nella miseria. Gli Stati Uniti e la Francia, i due imperialismi tutelari, non si sono mai preoccupati di dedicare anche solo una parte del denaro speso per l'occupazione militare allo scopo di dare al paese un minimo di infrastrutture e neanche, a maggior ragione ancora, di pesare sul padronato locale o internazionale che si arricchisce alle spalle di un proletariato scandalosamente sottopagato.

Le manovre intorno all'ex Jugoslavia

Più vicino a noi, in questa Europa di cui si dice per che sta beneficiando di un'era di pace, l'intervento della Nato contro la Serbia di Milosevic nel 1999 non ha mai neanche permesso la stabilizzazione della situazione.

Quasi dieci anni dopo questo intervento, il Kosovo è sempre occupato dalle truppe dell'Eurocorps in collegamento con la Nato. La sua situazione giuridica internazionale stessa, tra l'indipendenza richiesta dalla maggioranza albanofona e l'autonomia proposta dalla Serbia di cui fa teoricamente parte, è la posta in gioco di un confronto tra i paesi occidentali e la Russia. Il paese, sottomesso ai maneggi delle mafie e dilaniato dall'ostilità tra la maggioranza albanese e la minoranza serba, rimane un focolaio di tensioni. La vicina Macedonia, con la sua forte minoranza albanese, lo è nello stesso mode.

Ma la situazione non è molto più stabilizzata in Bosnia-Erzegovina che, anche se riconosciuta come Stato indipendente, non riesce ad insediare un apparato di stato unificato ed accettato dalle diverse comunità, serba, croata e bosniaca.

La Jugoslavia di Tito era una dittatura. Ma, insediata durante la battaglia comune contro l'occupazione nazista durante la seconda guerra mondiale in nome di un nazionalismo jugoslavo che trascendeva le sfaldature etniche e religiosi, aveva almeno permesso ai vari popoli della Jugoslavia di coesistere ed ai micronazionalismi di riassorbirsi progressivamente grazie a questa vita in comune. I venti anni scorsi dopo la decomposizione della Jugoslavia hanno dimostrato che il ritorno completo nel seno dell'imperialismo non ha fatto altro sul piano economico che di accentuare la differenza tra la parte meno povera dell'ex Jugoslavia -la Slovenia ormai integrata all'Unione europea e la Croazia che ci si è candidata- e le parti più povere. E la loro povertà costituisce tanto più un terriccio per l'inasprirsi degli antagonismi comunitari nazionali o religiosi in quanto le rivalità tra potenze imperialisti si sono aggiunte alle realtà locali.

L'esercito francese in Costa d'Avorio

Anche l'intervento dell'imperialismo francese nella Costa d'Avorio ha poprtato, al suo livello, ad un fallimento. L'accordo che il governo francese aveva imposto nel gennaio 2003 a Marcoussis ai due campi rivali che si dividono il paese dalla ribellione militare del 2002 non è stato seguito di alcun effetto. Finalmente è sotto egida del governo del Burkina che le due parti hanno finito col firmare, il 4 marzo 2007, gli accordi di Ouagadougou che ponevano fine alla guerra aperta tra Nord e Sud.

Il presidente in posto Gbagbo che governa il sud del paese dove si trova anche la sua capitale economica Abigian ha preso come primo ministro il capo politico dei ribelli del Nord, Soro. Ma non pertanto le due parti del paese si sono unificate. I militari secessionisti del Nord non hanno disarmato, non più che hanno disarmato i gruppi paramilitari che al sud appoggiano Gbagbo.

Non basta che i capi politici delle due entità ritengano che sia loro interesse rispettivo di accordarsi. Bisogna superare una divisione dell'apparato di stato stesso. Per esempio la salita di grado decisa per i suoi membri dalla gerarchia secessionista, con i redditi e le prebende che ne conseguono, sarà accettata dalla gerarchia rimasta leale al potere centrale? La fusione in un apparato di stato riunificato dei molteplici feudi che si sono costituiti richiedere una volontà politica e dei soldi. Per ora ci sono solo le manovre politiche. Non è sicuro che i capi militari del Nord siano unanimamente d'accordo con Soro nel suo tentativo di accordarsi con Gbagbo.

L'elezione presidenziale già respinta due volte lo sarà una volta di più il 1° novembre di quest'anno. Se la situazione non lede veramente gli interessi dei grandi capitali francesi che hanno messo la mano sui settori più redditizi del sud del paese, né quelli dei beneficiari delle contrabbande e dei traffici di ogni genere tra le due parti del paese ed i paesi vicini, essa rimane drammatica per la gran maggioranza della popolazione, che continua di esserne vittima, in più della povertà che peggiora, delle vampate di linciaggi etnici nelle campagne e dei ricatti dei militari delle due parti.

Il cosiddetto "processo di pace" stesso ha aperto un nuovo campo davanti ai ricattatori in divisa. Per preparare l'elezione presidenziale l'accordo di Ouagadougou prevede delle "udienze ambulanti" destinate a fornire una carta d'identità valendo certificato elettorale a tutti quelli che non ne hanno o che ne sono stati volontariamente privati sotto pretesto di non-avorianità, per diminuire il peso elettorale della popolazione originata dal Nord, di cui si sa che è più favorevole ad Alassane Ouattara, principale rivale di Gbagbo, che non a quest'ultimo. Ma queste "udienze ambulantié non vanno avanti e di più quelli che ci si recano vengono sistematicamente spogliati dai militari incaricati di garantirne il buon svolgimento.

Africa : degli Stati in decomposizione

L'aspetto più notevole dell'evoluzione della situazione politica in Africa è la decomposizione dell'apparato di stato in parecchi paesi. La Somalia, dove esiste solo un potere centrale virtuale, è l'esempio che colpisce di più. Le bande armate tribali si contendono periodicamente anche i vari quartieri della capitale Mogadiscio, mentre il paese è diviso tra signori della guerra con una delimitazione fluttuante delle loro "zone di sovranità". Nè l'intervento diretto dell'esercito americano nel 1993, né il suo intervento indiretto tramite l'esercito etiope dal 2006, hanno messo fine a questo stato di cose.

E' così in molti altri paesi d'Africa, compreso uno dei più grandi e più popolati, il Congo ex Zaïre che è anche uno dei più ricchi. E' vero che l'unità di questo paese, sorto dai ritagli coloniali, non è mai stata completamente assicurata. Ma da parecchi anni intere regioni quali il Kivu, di una superficie più estesa della Gran Bretagna, sfuggono completamente al potere centrale di Kinshasa e di più sono il teatro di guerre locali permanenti tra fazioni, sostenute ed armate lì dai governi dei paesi vicini, là direttamente dai trust minerari o da ambedue alla volta. Queste guerre locali fanno sorgere delle pratiche particolarmente barbari come i bambini soldati o le atrocità verso le donne come metodi per terrorizzare la popolazione e demoralizzare l'avversario del momento.

In questa parte del Congo un'intera generazione non ha conosciuto altro che una vita di fughe davanti alle bande armate, andando da un campo profughi ad un'altro campo profughi. Dei contadini impossibilitati a fare le raccolte, anche quando hanno potuto seminare, sono ridotti a cogliere frutti o si nutriscono di fogli. Ma al tempo stesso l'aumento dei prezzi sul mercato internazionale delle materie prime estratte dal sottosuolo del Congo, monopolizzate dai grandi trust internazionali, fanno salire il Pil nelle statistiche e fanno dire ai commentatori che sul piano economico l'Africa sia in progresso.

Una parte crescente della popolazione è condannata alla stessa vita errante, non solo nel Darfur di cui la stampa può parlare tanto più facilmente che chi è sotto accusa è il governo sudanese e dietro di lui la Cina, il suo principale sostegno sul piano internazionale, ma anche è sempre di più nel Ciad e nella Repubblica Centrafricana. L'esercito francese è presente in questi due paesi ma non giuoca affatto il ruolo di un pacificatore, invece è uno degli elementi del gioco di alleanze o di ostilità tra i vari gruppi armati. Questo gioco rispetta tanto meno i confini tra Sudan, Ciad e Centrafrica in quanto le stesse etnie sono spesso presenti da una parte e dall'altra di queste frontiere.

La decomposizione statale non è necessariamente un problema per i Trust capitalisti che saccheggiano le ricchezze minerarie o forestali dell'Africa. Basta semplicemente che si paghino i servizi del signore di guerra più potente. Invece lo è, fino ad un certo punto, per i loro stati, per le potenze imperialiste incaricate di vigilare sull'ordine.

"Le più grandi minacce provengono ormai più dall'interno degli stati che non dalle loro relazioni estere" avrebbe dichiarato Condoleezza Rice, esprimendo così la necessità per le grandi potenze di dare agli apparati di stato nazionali i mezzi per rafforzarsi. Ma in realtà è un augurio astratto. Non solo perché rimettere in posto apparati di stato putrefatti, minati dalla corruzione, costerebbe denaro di cui le potenze imperialiste sono avari, tranne nelle regioni dove i loro interessi vitali lo esigono (è più facile vendere armi a regimi corrotti che di assicurare, per esempio, la paga dei militari). Ma di più sono spesso le potenze imperialiste stesse che finanziano ed armano i gruppi di opposizione , sia per opporsi ad un regime che gli dispiace sia semplicemente nell'ambito di rivalità fra di loro. Basti ricordare semplicemente il ruolo giuocato dagli Stati Uniti nell'emergenza dei Talebani in Afghanistan o nell'armamento di fazioni contrapposte in Somalia.

La Palestina

Quanto alla situazione in Israele e Palestina, purtroppo non c'è niente di nuovo, tranne forse la ripresa di una certa agitazione diplomatica dalle parti degli Stati Uniti. Essi continuano a sostenere pienamente lo stato d'Israele, loro alleato e subordinato più sicuro del Medio Oriente. Nonostante alcune dichiarazioni contro il proseguimento del radicamento di colonie israeliane in Palestina, gli Stati Uniti lasciano fare. E nello stesso modo lasciano fare la politica di repressione, l'embargo destinato a soffocarne il territorio di Gaza controllato da Hamas, e ovviamente tutta la strategia dello stato d'Israele negando il diritto dei palestinesi all'esistenza nazionale.

Se gli Stati Uniti hanno però qualche ragioni di preoccuparsi per l'indebolimento relativo dello stato d'Israele, dimostrato dalla mezza sconfitta dell'esercito israeliano di fronte all'Hezbollah nel 2006 nel Libano, tutta questa agitazione diplomatica è innanzitutto destinata a confortare un po' la posizione di Mahmud Abbas nel suo conflitto con Hamas.

Non solo la prospettiva di uno Stato palestinese non si è avvicinata durante l'anno scorso, ma di più allo spezzettamento del territorio palestinese si è aggiunta la divisione in due di questa caricatura di stato quale l'Autorità palestinese. All'oppressione dello stato d'Israele si aggiunge la violenza delle milizie delle due parti, preoccupate innanzitutto di avere la meglio sul apparato concorrente. Tutto questo sulla base di un'evoluzione in un senso reazionario, espressa non solo dall'influenza di un'organizzazione islamista come Hamas ma anche dall'evoluzione in senso religioso del Fatah, organizzazione non confessionale all'origine, come lo dimostra l'organizzazione di una vera e propria polizia del buon costume in Ramallah, incaricata di far rispettare il Ramadan è di intervenire contro i comportamenti non conformi alla religione.

La politica dell'imperialismo americano e l'oppressione dello stato d'Israele spingono ad un'evoluzione che chiude la prospettiva di un'intesa tra i due popoli, israeliano è palestinese, non solo sul piano materiale ma anche sul piano morale, mentre sono destinati a vivere insieme.

L'Unione Europea in tutti i suoi Stati

In quanto alle istituzioni dell'Unione europea, i capi di stato europei, quello della Francia in primo luogo, non hanno messo molto tempo ad immaginare un modo per calpestare il rifiuto, nella primavera 2005, del trattato costituzionale europeo da parte degli elettorati francese e neerlandese. L'esercizio consiste nel fare del nuovo col vecchio, togliendo dal testo rifiutato alcuni termini che potevano irritare gli elettori come il passaggio sulla "concorrenza libera e non falsata", e soprattutto nel non ripetere l'errore di chiedere agli elettori il loro parere tramite un referendum. Per non irritare i "sovranisti", non si parla più di costituzione bensì di trattato; si toglie il titolo di "ministro europeo degli affari esteri" a vantaggio di un altro, tanto più semplice, come "alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza"!

A parte questo bell'esercizio di ipocrisia, il nuovo cosiddetto trattato semplificato è pressoché identico al progetto di costituzione respinto, almeno per ciò che preoccupava veramente i dirigenti politici: come fare ad organizzare il funzionamento delle istituzioni con 27 paesi, pur assicurando ai principali paesi capitalistici il controllo, o almeno il diritto di veto, sulle decisioni prese. Perché contrariamente alle stupidaggini veicolate da molti gauchistes o altromondisti, quello che poneva un problema ai responsabili politici della borghesia non era di "scolpire nel marmo della costituzione" la corsa al profitto e la concorrenza. Il capitalismo non ha bisogno di costituzione per imporre le sue leggi e non basta togliere alcuni paragrafi in un testo o modificarne altri per fare dell'Unione europea l'Europa dei popoli.

Questa nuova impalcatura che regola il funzionamento delle istituzioni europee è stato accettato dai 27 capì di stato e di governo al vertice europeo di Lisbona il 19 ottobre 2007. Per quanto riguarda la Francia, si chiederà al Parlamento di votarlo a dicembre, facendo quindi a meno di un nuovo referendum col pretesto che, coll'eleggere Sarkozy, la maggioranza dell'elettorato ha votato per tutto quello che dice e fa, e il suo contrario.

Ministri e commentatori si sono congratulati con questa "elegante" uscita dal vicolo cieco istituzionale e si sono rallegrati di questo nuovo avviamento, uno di più, della costruzione europea. Ma il futuro dell'Unione europea dipende meno di questi giochi che non dalla realtà economica, il cui peggioramento rischia di mettere sul proscenio la concorrenza e le rivalità tra i vari paesi d'Europa.

Le mutue concessioni laboriosamente negoziate fra le potenze europee per non sparire nella concorrenza internazionale di fronte agli Stati Uniti o al Giappone non hanno messo fine nè alle rivalità tra gli Stati che compongono l'Unione, nè alla concorrenza tra i trust di cui rappresentano gli interessi. Le istituzioni europee costituiscono soltanto un campo supplementare dove gli interessi contraddittori si confrontano e si negoziano.

I recenti scandali rispetto alla Eads, una delle poche imprese europee, hanno alzato un angolo del velo sulla sorda lotta che si svolge alla sua testa tra gli interessi tedeschi e gli interessi francesi. Nel caso dell'Airbus, questo si è tradotto con un ritardo nella data di commercializzazione dell'aereo A 380. Eads o più precisamente la sua filiale Airbus, sono però in concorrenza con l'americano Boeing. In quanto ad un altro progetto europeo, il sistema di localizzazione satellitare battezzato Galileo, le rivalità nazionali lo potrebbero far fallire completamente.

Eppure il sistema Galileo è destinato a permettere ad una decina di gruppi capitalistici d'Europa di associarsi per mettere fine all'egemonia americana del Gps. L'operazione dovrebbe portare ad aprire un nuovo mercato stimato a 300 miliardi di euro davanti a grandi imprese come in Francia la Alcatel o la Thalès, ed a mettere in orbita una costellazione di 30 satelliti. Ma per ragioni di rivalità nazionali e di sfiducia tra le imprese concorrenti, si è potuto lanciare un solo satellite sperimentale, e i tempi si allungano al punto di lasciare il tempo all'americano Gps di elaborare un nuovo sistema più competitivo che potrebbe tagliare definitivamente le ali al progetto Galileo.

Anche l'euro stesso, pur moneta comune, costituisce un pomo della discordia. La speculazione sulle monete ha accentuato l'aumento del tasso di cambio dell'euro nei confronti del dollaro. Mentre la Francia e l'Italia gridano alla minaccia sulle loro esportazioni e chiedono alla Banca centrale europea una politica mirando a abbassare il tasso di cambio dell'euro, la Germania le cui esportazioni non sono strutturate nello stesso modo si congratula al contrario per l'euro forte.

Quanto alla parte povera dell'unione europea, gli Stati baltici sorti dalla decomposizione dell'Unione sovietica o le ex democrazie popolari non hanno gran diritto alla parola. Il paese più popolato tra i paesi dell'est europeo, ossia la Polonia, che si è a lungo opposto prima all'oggetto di costituzione europea poi alla sua riedizione scorciata, ha dovuto alla fine rientrare nei ranghi.

L'Europa dell'est nel suo insieme, un cortiletto per i grandi gruppi industriali e bancari d'Europa occidentale, è destinata a rimanere tale, non solo sul piano economico ma anche sul piano politico.

L'evoluzione politica dei paesi europei, compresi quelli dell'Unione europea, è una testimonianza del fatto che l'ascesa dellle idee reazionarie non si limita ai paesi economicamente e culturalmente arretrati. Certamente, in Polonia il partito dei reazionarissimi gemelli Kaczynski è stato battuto dal partito di Donald Tusk. Ma la nuova squadra di governo, pur essendo più aperta verso l'Europa, è altrettanto reazionaria del suo concorrente di destra. Non ha nessuna intenzione di prendersela con l'onnipotenza della Chiesa cattolica, né di sopprimere le leggi particolarmente retrograde rispetto alle donne (divieto dell'aborto, difficoltà per il divorzio, ecc.). E' vero che sono stati i partiti considerati come di sinistra, in parte nati dal movimento Solidarnosc o dall'ex partito stalinista, a sgomberare il terreno davanti alla destra e l'estrema destra, imponendo quando erano al potere una marcia forzata verso le privatizzazioni e il capitalismo selvaggio, favorendo la Chiesa e incoraggiando i sentimenti nazionalisti.

Anche in Ungheria, è il partito socialista attualmente al potere, sorto dall'ex partito stalinista, che con l'arricchimento schifoso dei suoi principali dirigenti e la sua politica d'austerità e di demolizione delle protezioni sociali per le classi lavoratrici, sta aprendo la strada davanti all'estrema destra al punto che i gruppi paramilitari di quest'ultima possono farsi vedere nella capitale con l'autorizzazione della polizia.

Ma questa evoluzione reazionaria coinvolge anche la vecchia Europa delle democrazie imperialiste. Questo si vede in Svizzera con l'ascesa del partito di Christoph Blocher, versione locale di Le Pen, oppure nel Belgio con l'ascesa del separatismo.

Russia : i calcoli di Putin

In quanto alla Russia, il fatto politico notevole di quest'anno è la manovra inventata da Putin per rimanere al potere mentre la costituzione non gli permette di candidarsi all'elezione presidenziale per la terza volta di seguito.

Piuttosto che di modificare la costituzione, pare che abbia scelto di candidarsi alla testa del suo partito alle elezioni legislative previste per dicembre 2007. Se, come sembra verosimile, quest'ultimo esce vittorioso da queste elezioni, Putin pensa di occupare il posto di primo ministro, lasciando la presidenza ad un uomo ligio. Così, preserverebbe la possibilità di candidarsi di nuovo alla presidenza alla fine del mandato del suo successore, costringendolo alle dimissioni anticipate,.

Ciò che gli permette di immaginare tale scenario con qualche possibilità di successo è il fatto che l'aumento dei prezzi del petrolio e del gas naturale assicura allo Stato russo redditi in notevole crescita. E' più o meno riuscito ad arrestare la decomposizione dello Stato russo e ha permesso il ritorno di quest'ultimo sulla scena politica internazionale.

Questo calcolo può sicuramente rivelarsi sbaglato, e l'eventuale burattino lasciato alla presidenza può rifiutare di farsi indietro. Ma l'ambizione di Putin non è soltanto quella di un uomo che può essere ostacolata dall'ambizione di un altro. E' il rappresentante di un clan della burocrazia che durante gli otto anni di potere presidenziale di Putin ha messo la mano su un gran numero di ingranaggi dell'apparato di stato ed un gran numero di mass media, in particolare le reti televisive nazionali in grado di raggiungere l'insieme di questo immenso paese.

D'altra parte mentre il suo predecessore Eltsin aveva svenduto al privato gran parte delle imprese industriali o minerarie, il clan di Putin ha ripreso il controllo delle imprese strategiche, e tra l'altro della Gasprom per servirsene come di uno strumento politico, sia all'interno che sulla scena internazionale.

L'America latina

Dal 1998 e l'elezione di Hugo Chavez alla testa del Venezuela, una serie di altre elezioni e tra l'altro quelle che si sono svolte tra il novembre 2005 e il dicembre 2006 in 11 paesi del continente latino-americano, hanno confermato una specie di svolta a sinistra degli elettorati e l'arrivo, o il mantenimento alla testa della maggior parte di questi stati di dirigenti che si affermano di sinistra o hanno un discorso progressista: Lula nel Brasile, Kirchner in Argentina, Bachelet nel Cile, Correa in Ecuador, Moralès in Bolivia, Ortega nel Nicaragua.

L'esempio di Lula, uno dei più vecchi al suo posto tra questi dirigenti di sinistra, ha dimostrato che una volta al potere la sinistra latino-americana si comporta in modo poco diverso di quella dell'Europa occidentale. Lula, eletto grazie alle speranze ed alle illusioni delle masse disereditate del Brasile, è stato alla pari dei suoi predecessori l'esecutore delle volontà del gran capitale locale o internazionale.

I più radicali di questi dirigenti, come Moralès, Correa e innanzitutto Chavez, ispirano però tutta una mitologia presso una parte dell'estrema sinistra europea. Si tratta in generale di quelli che sono stati disincantati dai loro vecchi amori per Catro, per passare alla fine degli anni 70 all'amore per il regime sandinista del Nicaragua. Hugo Chavez, con i suoi discorsi antiamericani, il suo nazionalismo economico, la sua amicizia per Castro, le sue mosse di solidarietà in direzione dei paesi poveri d'America latina con l'utilizzare il petrolio e i redditi che ne derivano, le sue misure a favore delle classi popolari del suo paese, ha tutto quello che piace a questo ambiente politico.

Sia Chavez che Moralès o Correa beneficiano evidentemente del sostegno delle classi popolari dei loro rispettivi paesi, ma non rappresentano però nè da vicino nè da lontano gli interessi politici della classe operaia di questi paesi, non più che delle prospettive comuniste, e neanche lo pretendono. La "rivoluzione Bolivariana" di cui Chavez si fa il portavoce sente qualcosa di peronismo e non di rivoluzione.

Infatti c'è da sottolineare che Castro, senza essere un rivoluzionario nel senso proletario del termine, fu però portato al potere da un sollevamento contadino, che esso seppe dirigere ed inquadrare. Tale sollevamento gli ha dato una base popolare solida, che gli ha permesso di resistere alle pressioni, o addirittura all'aggressione militare dell'imperialismo americano e di effettuare all'interno del paese cambiamenti sociali apprezzabili. Non è il caso nè di Chavez, nè di Moralès o Correa.

Di fronte alle pressioni dell'imperialismo americano o della grande borghesia locale che non ha nessuna simpatia per lui, i comunisti rivoluzionari sono ovviamente solidali con Chavez ma non devono conferirgli un impegno politico che non ha. E non è solo una questione di vocabolario.

Una comprensione giusta o al contrario abbellita di ciò che sono o rappresentano Chavez o Moralès, non cambia niente per loro ma cambia molto per la formazione di militanti che si riferiscono al comunismo.

La storia di questi 60 ultimi anni ha visto sorgere nei paesi poveri e prendere il potere molti movimenti che avevano l'obiettivo di allentare la presa dell'imperialismo sui loro paesi e di provare a sviluppare l'economia su una base nazionale. Il più importante, e ce ne corre, è stato il movimento di Mao Dze Dong in Cina. Il regime maoista è riuscito certamente a sbarazzare la Cina da una gran parte del suo arretramento feudale e ha proceduto ad una certa industrializzazione al riparo della penetrazione dei trust imperialisti, sotto protezione delle sue frontiere e delle sue barriere doganali.

Ma la Cina, nonostante tutte i vantaggi che aveva per le sue dimensioni, la sua popolazione e la varietà delle sue risorse, non solo ha reintegrato alla fine l'economia imperialista mondiale, ma di più ne è divenuta un elemento importante.

Il regime di Mao, nonostante il suo discorso molto più radicale di quello delle sue fiocche copie odierne, nonostante la capacità che ha dimostrato a lungo per tenere testa agli Stati Uniti, non solo non ha messo in questione il dominio imperialista, ma ne è divenuto oggi una cinghia di trasmissione contro le classi popolari cinesi. L'immensa classe contadina crepando di miseria nelle campagne lasciate nell'arretramento, o cacciata verso le città, e la classe operaia sottomessa a condizioni di esistenza degne dei tempi della rivoluzione industriale nell'Europa dell'Otoocento, sono di fronte ad una borghesia che si arricchisce grazie ad un capitalismo sfrenato.

Quanto agli imitatori di Mao degli anni 60 e 70, essi sono scomparsi o si sono integrati nell'ordine mondiale. Dei regimi da loro insediati rimangono solo alcune vestigia in via di scomparire in Corea del Nord, nel Vietnam e a Cuba. Eppure furono tanti, in questi anni, i regimi i cui dirigenti si proclamavano anti-imperialisti!

Ma l'unico vero anti-imperialismo è quello che mira alla distruzione del sistema capitalista stesso con l'unica forza sociale che ne ha la capacità storica, cioè il proletariato.

Il dominio dell'imperialismo, cioè l'organizzazione dell'economia e della società su base capitalistica, non costituisce soltanto un ostacolo davanti ad ogni possibilità per l'umanità di prendere in mano in modo cosciente l'organizzazione razionale della sua esistenza materiale. E' anche un potente fattore di regressione nel campo delle idee, della cultura e dei comportamenti semplicemente umani. Si sta assistendo ad una marcia in dietro verso la barbarie.

L'ascesa delle idee reazionarie e religiose, dei nazionalismi, del ribellismo è più in genere la decomposizione sociale, sono espressioni del carattere senile di un ordine economico tanto ingiusta quanto anacronistico. La cosa più grave in questa decomposizione sociale è il fatto che coinvolge anche l'unica classe progressista del futuro, il proletariato.

Dal punto di vista del suo numero e della sua forza sociale, il proletariato non si è indebolito da quando alla fine della prima guerra mondiale minacciòveramente l'ordine imperialista. I milioni di contadini cinesi trasformati in proletari ne costituiscono una delle prove.

La coscienza politica di classe non risulta però dalla condizione proletaria bensì dall'attività delle forze politiche che militano sul terreno di classe mirando ad un ritorno del proletariato sulla scena politica.

E' impossibile prevedere come, in quale paese, tramite quali processi si svilupperanno le forze politiche che militeranno sul terreno del comunismo rivoluzionario.

Tutto quello che si può dire è che questo è indispensabile perché la classe operaia, l'unica classe che ha la forza e l'interesse fondamentale di rovesciare il capitalismo, possa ritrovare il suo ruolo.

Venerdì 26 ottobre 2007

Situazione economica 2007

Testo proposto dalla maggioranza, votato dal 97% dei delegati al congresso

La crisi finanziaria che durante l'estate si è propagata su scala mondiale e di cui non si vede ancora la fine ha avuto come punto di partenza lo scoppio della bolla speculativa del settore immobiliare negli Stati Uniti.

La crisi immobiliare americana, scoppiata brutalmente nel 2006, era lo sbocco di quattro anni di un'intensa speculazione facilitata dai bassi tassi d'interesse della Banca centrale americana che permetteva alle banche e alle agenzie ipotecarie di proporre offerte attraenti ai loro clienti.

Dopo il periodo in cui la domanda reale, moltiplicata dalla domanda speculativa, aveva fatto salire i prezzi degli alloggi e accelerato i programmi di costruzione, un repentino rivolgimento si è prodotto quando la saturazione del mercato è diventata evidente (4 milioni di case non vendute). Tale saturazione ha coinciso con il rialzo dei tassi d'interesse della Banca centrale americana che ha rincarato il costo del credito e reso i rimborsi più difficili. L'incapacità di un numero crescente di debitori di pagare gli interessi del loro prestito, costringendoli a rendere la loro casa a meno che forse la banca prestitrice a sequestrarla, ha ancora peggiorato la cosiddetta crisi di sovrapproduzione nell'immobiliare americano.

Anche solo in quanto tale, la crisi nell'immobiliare ha già fatto danni importanti fra le classi popolari degli Stati Uniti. Essendo i tassi di credito attraenti che gli venivano proposti a tasso variabile, si sono rivelati una trappola per gran parte di loro quando il tasso direttore della Banca centrale americana è passato dall'1% al 5%.

Già ora circa un milione di acquirenti hanno perso il loro nuovo alloggio. Si stima che questo numero potrebbe raggiungere o addirittura superare 3 milioni nel 2008, senza dimenticare quelli che nelle classi popolari sono riusciti a conservare l'alloggio solo al prezzo di sacrifici in altri campi o di una riduzione dei loro consumi. Il che vuol dire che il solo aspetto immobiliare della crisi ha già spinto parecchi milioni di famiglie verso la povertà.

Negli Stati Uniti stessi, la crisi dell'immobiliare e della costruzione non è finita. Si stima che raggiungerà la maggiore gravità all'inizio del 2008.

Ma la febbre speculativa nell'immobiliare non si è limitato ai soli Stati Uniti. A vari livelli tutti i paesi imperialisti hanno conosciuto lo stesso fenomeno, e per le stesse ragioni: all'inizio l'insufficienza reale di alloggi per le classi popolari provoca il rialzo dei prezzi; rialzo che a sua volta suscita acquisti speculativi che portano all'euforia sul mercato immobiliare. I crediti bancari facili amplificano il fenomeno.

Per ora non c'è stato un calo brutale dei prezzi nei paesi europei ma in Francia per esempio le statistiche trimestrali indicano un leggero regresso del prezzo degli alloggi per la prima volta dal 2000.

E' stata infatti la crisi dell'immobiliare americano a generalizzarsi durante l'estate 2007, trasformandosi in crisi finanziaria. L'immobiliare è stato solo un catalizzatore. La crisi finanziaria è nella continuità delle crisi che ogni tre o quattro anni scuotono l'insieme del sistema finanziario mondiale.

La forma assunta per ora dalla crisi finanziaria è una crisi di fiducia tra le banche, dall'una verso le altre. Ogni banca detiene una certa quantità di titoli basati, direttamente o indirettamente, sui crediti ipotecari emessi dalle banche americane, mischiati, trasformati e rivenduti sotto forma di nuovi titoli dai fondi speculativi.

Tali titoli, che erano molto redditizi, sono presenti nel portafoglio, non solo di tutte le grandi banche, bensì anche nella tesoreria di un certo numero di grandi imprese, senza che pertanto si possa conoscere, visto l'opacità delle operazioni finanziarie, la parte dei crediti rischiosi, cioè quelli per cui c'è ben poca probabilità che sia rimborsati un giorno, e forse non lo saranno mai. Visto che i vari titoli in possessione delle banche fanno da sopporto a molteplici transazioni quotidiane tra le banche, la crisi di fiducia a brutalmente frenato questo flusso finanziario quotidiano e reso il credito più caro.

Per venire in aiuto alle banche in difficoltà e diminuire le tensioni sul credito, le banche centrali sono intervenute massicciamente.

L'intervento delle banche centrali e in primo luogo della riserva federale (Fed) per gli Stati Uniti, della banca centrale europea (BCE) per i paesi della zona euro, o delle banche centrali britannica o giapponese, senza parlare delle altre, ha avuto due aspetti principali. Da un lato si trattava di salvare le banche incapaci di rimborsare i loro clienti e minacciate di fallimento, concedendo loro crediti eccezionali e praticamente illimitati. Dall'altro si trattava di facilitare il credito tramite i tassi d'interesse che fanno riferimento ai tassi praticati dalle banche.

La banca centrale europea ha abbandonato il suo progetto di aumentare il suo tasso d'interesse. Quanto alla Fed, ha addirittura abbassato il suo.

Questa generosità delle banche centrali forse ha salvato il sistema finanziario, almeno per il momento, evitandogli l'asfissia per mancanza di crediti. Comunque, ha salvato la posta degli speculatori. Così sono assicurati di poter speculare senza rischio poiché, se vincono sono loro ad intascare il profitto della speculazione, e se perdono sono le banche centrali a pagare le loro perdite.

In un modo o nell'altro il denaro consentito alle banche e alle imprese verrà pagato dalle classi popolari. Nonostante le centinaia di miliardi sborsati dalle banche centrali siano stati concessi solo come prestiti, niente garantisce che questi prestiti verranno rimborsati. In questo caso sarà necessario di colmare, in un modo o nell'altro, il buco scavato. E comunque i crediti concessi rappresentano creazioni monetarie supplementari, cioè inflazione, con gli aumenti di prezzi che ne derivano e l'abbassamento del potere d'acquisto che questo significa per tutti quelli, in primo luogo i salariati, di cui i redditi sono già stati frenati da molto tempo.

L'attuale crisi finanziaria è l'ultimo prodotto dei periodi di febbre della sfera finanziaria, che soffocano sempre di più la produzione. Questa finanziarizzazione è l'aspetto più notevole dell'evoluzione dell'economia capitalistica mondiale da quando, alla svolta degli anni 60 e 70, è entrata in un periodo di ristagno o di crescita lenta, interrotta da periodi di recessione. L'abbassamento del tasso di profitto delle imprese è stato una delle componenti della crisi dell'economia capitalistica, succedendo agli anni di espansione suscitata prima dalle necessità della ricostruzione dopo la guerra, poi dall'allargamento dei mercati mondiali.

La crisi del sistema monetario internazionale dal 1969 al 1971, poi il primo urto petrolifero, ne sono stati le prime manifestazioni visibili.

L'aumento brutale del prezzo del petrolio del 1973 risultava dalla volontà dei trusts del petrolio di mantenere i loro profitti nonostante la stagnazione del mercato, aumentando i loro prezzi poiché non potevano aumentare le loro vendite. Tale rimedio era alla portata solo di trusts praticamente in situazione di monopolio su scala mondiale, ciò che era il caso del petrolio. Però coll'anticipare le conseguenze della crisi e col cercare a preservarsi dei suoi effetti, i trusts del petrolio l'hanno peggiorata.

Il rincaro del prezzo del petrolio -moltiplicato per 14 fra il 1970 e il 1981- ha pesantemente colpito il settore produttivo abbassando ancora di più il tasso di profitto nella maggior parte delle imprese. Questa non è una novità nelle crisi capitalistiche: i periodi di crisi sono in genere quelli in cui i grandi trusts preservarno i loro profitti a detrimento dell'insieme della società, compreso di loro compari capitalisti, ed accentuano i loro controllo sull'economia anche al prezzo di asfissiare le imprese di dimensioni minori.

Per salvare le imprese capitaliste gli stati sono intervenuti massicciamente dappertutto a favore della loro classe capitalista, con aiuti e sovvenzioni di ogni sorta. Per fare questo, hanno aumentato la massa monetaria facendo funzionare la "macchina dei biglietti" ed indebitandosi massicciamente . L'indebitamento degli stati è aumentato di colpo, e da quel momento non ha smesso di aggravarsi. Tutto questo si è tradotto con una forte spinta d'inflazione su scala mondiale. Il semplice effetto di questa inflazione costituiva un attacco contro le classi sociali dai redditi fissi, in primo luogo i salariati.

La medicazione utilizzata in una di queste frasi si rivelerà un veleno all'origine delle difficoltà della fase successiva. L'inflazione, con un ritmo diverso a seconda dei paesi, si è rivelata un fattore di perturbazione del commercio internazionale, accentuato ancora dalla scomparsa del sistema monetario internazionale più o meno stabile insediato all'indomani della guerra a Bretton-Woods.

La finanziarizzazione dell'economia era cominciata anche prima che la crisi del sistema monetario internazionale del 1971 fosse scoppiata all'aperto. La fine degli anni 60 era segnata dal moltiplicarsi di ciò che veniva chiamato all'epoca gli "eurodollari" che erano in sostanza crediti emessi in dollari dalle banche all'esterno degli Stati Uniti, e quindi non controllati dallo Stato americano.

Eppure fu con la crisi, in particolare a partire dalla crisi del petrolio, che tale evoluzione verso la finanziarizzazione dell'economia ricevette un potente impulso. Quelli che allora venivano chiamati i "petrodollari", cioè il denaro accumulato da un lato dagli emiri del petrolio e dall'altro dalle grandi compagnie petrolifere, ma non investito in modo produttivo, stavano per invadere il sistema finanziario mondiale, in cerca di investimenti interessanti. A queste somme considerevoli si aggiungevano i titoli che rappresentavano i crediti degli stati.

Per salvare la posta all'insieme della classe capitalistica, cioè per consentirle di fermare l'abbassamento del tasso di profitto, i gruppi industriali e finanziari e gli stati che li rappresentano hanno preso nel corso degli anni un'insieme di provvedimenti che costituiscono una vasta offensiva mirante a diminuire la parte della classe operaia nei redditi nazionali, per aumentare la parte del profitto.

Tale offensiva ha preso un'infinità di forme a seconda dei paesi e delle possibilità politiche e sociali dei dirigenti degli Stati. È riuscita a rovesciare la tendenza all'inizio degli anni 80. Da quel momento, il tasso di profitto era in crescita dappertutto. Negli anni 90, ha raggiunto e superato il suo livello di prima della crisi.

Nelle crisi di sovrapproduzione classiche del capitalismo del secolo precedente, l'aumento del tasso di profitto era in generale l'inizio della ripresa, spingendo i capitalisti ad investire nella produzione, ad aumentarla e a fare assunzioni. Niente di tale questa volta: i profitti crescenti prodotti dallo sfruttamento maggiore della classe operaia sono solo ben poco serviti ad investimenti produttivi. Hanno riirigato il sistema finanziario mondiale, facendo crescere senza tregua il volume complessivo di moneta e di crediti in circolazione. I gruppi capitalisti, invece di investire, di creare nuovi mercati, si sono accontentati di allargare ognuno il proprio mercato, comprando le parti di mercato degli altri, riaxquistendo delle imprese nel corso delle operazioni di fusione acquisizione che hanno segnato l'ultimo decennio. E innanzitutto, invece di investire, hanno piazzato il loro denaro in operazioni finanziarie più o meno speculative.

La speculazione è inseparabile dal capitlaismo. Quelle sulle azioni o le obbligazioni è così vecchia come le Borse. Tale istituzione che, come mercato del capitale, è assolutamente indispensabile al funzionamento dell'economia capitalistica, è sempre stata al tempo stesso un centro della speculazione. Ma col gonfiarsi delle masse di denaro in cerca di investimenti redditizi e i progressi contemporanei dell'informatica, il sistema finanziario ha inventato dei "prodotti" sempre più speculativi. Ha creato nuovi organi specializzati, vendendo gli uni agli altri dei titoli basati su altri titoli, al secondo, terzo o ennesimo brado, trasformando il mondo finanziario in un gigantesco casinò. I critici del sistema capitailsta non sono gli unici a constatare che la "logica finanziaria", come si dice, impone la sua legge anche alle imprese produttive. Lo fa in due modi: da un lato le imprese produttive utilizzano sempre più massicciamente i loro profitti, addirittura la loro tesoreria quotidiana, per delle operazioni finanziarie, e dall'altro i fondi d'investimento che riacquistano delle azioni non cercano ad investire a lungo termine, ma mirano alla redditività a brevissimo termine. Anche molti economisti borghesi lamentano questa corsa all'abisso, poiché sanno benissimo che il plusvalore che si contende la classe capitalistica risulta in ultima istanza solo dalla produzione.

Denunciare la "globalizzazione capitalista" per spiegare sia la finanziarizzazione dell'economia che le crisi finanziarie, così come lo fanno alcuni altromondisti, è stupido. L'attuale crisi è stata "globalizzata" come lo fu a suo tempo la crisi del 1929. Come lo erano state, già, le crisi periodiche dell'Ottocento, anche se riguardavano solo un numero più ristretto di settori, -ferrovie, siderurgia, tessili o edilizia- e anche se la "globalizzazione capitalista" non riguardava ancora veramente il mondo intero.

Detto questo, i provvedimenti presi per facilitare ancora la circolazione e il piazzamento dei capitali, la deregolazione, la deregolamentazione, la demolizione di tutte le separazioni istituite nel periodo precedente fra le imprese produttive, le banche e le compagnie d'assicurazione, e addirittura all'interno stesso del settore bancario tra le banche commerciali e le banche d'investimento, hanno contribuito a fare sì che le fluttuazioni dell'economia capitalistica si trasmettono in qualche modo istantaneamente.

Bisogna aggiungere anche la soppressione delle barriere protezionistiche davanti alla circolazione dei capitali fra i paesi capitalisti stessi, e più ancora la piena integrazione nell'economia capitalistica dei circuiti finanziari di questa parte del pianeta che più meno sfuggiva al suo controllo: il blocco dei paesi dell'est intorno all'URSS, oppure dei pochi paesi sottosviluppati che avevano cercato di allentare la morsa imperialista per provare a svilupparsi chiudendo le loro frontiere davanti alla circolazione dei capitali.

Anche le borse, questi tempi della speculazione, non sono più rappresentate da questi palazzi col loro personale di agenti di cambio riuniti intorno al "cestino". La borsa diventa un luogo immateriale, con la connessione in una rete di un insieme di computer che coprono il mondo intero. Tenuto conto della chiusura quotidiana, si può speculare 24 ore su 24, seguendo per modo di dire lo spostamento del sole da Tokio e Hong-Kong a Mosca, da Parigi o Francoforte a Londra e poi a New York. Fra l'altro ci sono specialisti che guadagnano delle fortune grazie alle minime variazioni fra i valori dei titoli da un posto all'altro e lungo queste 24 ore.

Se la prima fase della crisi è stata segnata dall'inflazione risultando dall'intervento degli stati a favore della loro classe capitalista e dal fatto di finanziare gli interventi col fare funzionare la macchina dei biglietti, la seconda fase a partire dagli anni 80 è stata segnata invece dai provvedimenti miranti a frenare quest'inflazione che ormai dava fastidio alla classe capitalista stessa.

La creazione monetaria, font e di inflazione, è stata dappertutto sostituita dal ricorso ai prestiti di stato. L'inflazione infatti è stata frenata, ma al prezzo di un indebitamento ancora maggiore degli stati.

Ora in Francia per esempio, il debito dello stato ha appena superato 1 200 milliardi di euro. In euro costanti, cioè tenendo conto degli effetti dell'inflazione, il debito pubblico in crescita ininterrotta, è stato moltiplicato per cinque in 25 anni. Anche il solo servizio del debito, 39 miliardi di euro nella legge finanziaria del 2007, rappresenta la seconda voce delle spese dello stato.

Non da oggi i prestiti agli stati alimentano i circuiti finanziari. Oggi però, l'economia finanziarizzata ha portato questa tendenza dell'economia imperialista ad un livello senza precedenti. Questi prestiti di stato, tra i quali i buoni del Tesoro americano occupano un posto particolare, sono diventati uno degli alimenti del sistema finanziario internazionale, è anche uno dei vettori delle speculazioni sulle monete. In periodi di crach borsistico o bancario, fanno anche da rifugio ai capitali presi dal panico che cercano un investimento sicuro, perché gli Stati fanno fallimento più di rado che le imprese, anche se bisogna sapere di quale stato si parla. I buoni del Tesoro americano hanno evidentemente un'altra solidità rispetto ai pezzi di carta simili emessi dal Messico, dalla Thailandia... o dal Mali, per quanto quest'ultimo possa immaginare di emetterne.

Non c'è da stupirsi se qualche economista borghese che si esprime in quanto tale, preso dal panico di fronte ai sobbalzi finanziari che minacciano senza tregua la produzione, cerca una via d'uscita. Ma nello stato attuale d'imbecillimento politico e di perdita di riferimenti, gli altromondisti appariscono oggi come rappresentanti non solo della sinistra, bensì della sinistra radicale. Eppure il loro approccio fondamentale è lo stesso di quello degli economisti borghesi che cercano come fare per rendere il sistema economico capitalista meno malato. Se la diagnosi degli altromondisti è giusta quando denunciano le conseguenze catastrofiche della finanziarizzazione dell'economia, tutte le loro proposte girano intorno ad idee che sono, al meglio rimedi del tutto inutili -la tassa Tobin sugli spostamenti di capitali o la soppressione dei paradisi fiscali- o peggio rappresentano un ritorno alla regolarizzazione e ai protezionismi.

Non è affatto impossibile che le idee protezioniste ritrovino un riscontro dalle parti delle grandi potenze imperialiste e dei loro gruppi finanziari. Se la globalizzazione finanziaria gli permette di saccheggiare senza ostacolo tutto il mondo, alcune delle sue conseguenze possono essere pregiudiziabili per loro. Pur predicando l'apertura delle frontiere davanti alla penetrazione dei loro capitali, le grandi potenze imperialistiche non hanno mai completamente smesso di essere protezioniste le une nei confronti delle altre, e tutti nei confronti dei paesi che è di moda chiamare "emergenti".

Da parecchi anni per esempio, tanto gli Stati Uniti quanto l'Unione Europea provano a proteggersi dalle merci a basso prezzo provenienti dalla Cina e accessoriamente da altri paesi sottosviluppati. La cosa è tanto più complicata in quanto queste merci a basso prezzo sono spesso fabbricate con capitali in provenienza dei paesi sviluppati -nei settori più moderni dell'industria cinese, elettronica, elettrodomestici, la Cina è solo un grande reparto d'appalto per il Giappone-, oppure sono fabbricate sugli ordini delle imprese commerciali o industriali dei paesi imperialisti -la più grande catena commerciale del mondo, l'americana Wal-Mart o il fabbricante di giocattoli Mattel... La preoccupazione degli stati imperialisti è di trovare le misure che, pur lasciando il mercato cinese aperto ai loro capitali e ai loro prodotti, potrebbero chiudere almeno parzialmente il loro proprio mercato ai prodotti cinesi.

Un altro campo ancora in cui punta il protezionismo è il campo finanziario stesso. Da molto tempo alcuni emirati del petrolio, incassando redditi finanziari importanti che i loro dirigenti non utilizzano sul posto, sono abituati a piazzare il loro denaro in buoni del Tesoro americano e, in qualche occasione, nel comprare azioni di grandi imprese.

Per ragioni completamente diverse, la Cina si ritrova in una situazione simile. Il sovrasfruttamento dei lavoratori cinesi ha consentito alla Cina durante questi ultimi anni di esportare massicciamente. Il valore delle sue esportazioni supera di gran lunga quello delle sue importazioni destinate in primo luogo al consumo della sua classe ricca, il che mette il suo commercio estero fortemente in attivo. Questo surplus di denaro viene piazzato negli Stati Uniti sotto forma di titoli di Stato o altri buoni del Tesoro.

Fin tanto che si trattava solo di denaro piazzato in titoli dello Stato americano, questo non dava fastidio agli Stati Uniti, al contrario. Grazie a queste somme considerevoli depositate dai paesi poveri, gli Stati Uniti possono equilibrare la loro bilancia dei pagamenti. È un modo per dirigere il denaro prelevato sugli operai e contadini cinesi verso i circuiti finanziari dell'imperialismo. Ma adesso alcuni degli stati, agendo tramite fondi finanziari chiamati "fondi sovrani" -il caso degli emirati del petrolio- o tramite monopoli di stato -è il caso del trust petrolifero cinese Cnooc o del russo Gasprom- si azzardano a volere investire il loro denaro in modo più redditizio col comprare azioni di imprese occidentali.

Per ora si tratta solo di un movimento marginale che ha provocato però delle urla protezionistiche in nome degli "interessi strategici" della nazione o in nome del "patriottismo economico". Così gli Stati Uniti si sono opposti al riacquisto da parte della società statale cinese cnooc del petroliere americano Unocal e hanno rifiutato l'acquisto di porti americani da parte della società pubblica Dubai-Portsworld.

Lo stesso atteggiamento protezionista è stato alla base della reazione dello stato francese contro l'acquisto di Suez da parte della ditta italiana Enel, mentre la Francia e l'Italia fanno tutte e due parte dell'Unione Europea.

Per ora queste reazioni protezioniste sono puntuali e limitate, tanto i vantaggi della circolazione dei capitali prevalgono su ogni altra considerazione. Ma in caso di peggioramento della situazione economica mondiale, c'è una forte probabilità perché i provvedimenti e gli atteggiamenti protezionistici si moltiplichino, e perché i paesi poveri esportatori ne siano le principali vittime.

Gli altromondisti che d'altra parte denunciano giustamente i misfatti della "globalizzazione capitalistica" per i paesi poveri saranno allora stati ascoltati. Ma la nuova ascesa dei protezionismi giocherà a profitto dei paesi imperialisti, nello stesso modo che la globalizzazione gioca in loro favore. In un mondo dominato dall'imperialismo non esiste una politica "equa", non più che un "commercio equo".

Predicare il ritorno al protezionismo è una politica reazionaria: lo è fondamentalmente perché questo mira a salvare la posta al gran capitale e al funzionamento capitalistico dell'economia; e lo è ancora di più perché un ritorno ai protezionismi nazionali, se fosse imposto da una peggioramento importante della crisi, sarebbe un considerevole regresso. Basti ricordare solo che era il rimedio del capitalismo durante la grande crisi del 1929 e la successiva depressione, certo con da un lato lo statalismo del New Deal e i suoi grandi lavori, ma con dall'altro anche l'economia tedesca sotto il nazismo.

Il nostro ragionamento in quanto comunisti rivoluzionari è all'opposto. L'attuale crisi non è l'espressione di una fase dell'economia capitalistica, e di più di una fase che si potrebbe aggirare, è l'espressione del fatto che l'organizzazione e il funzionamento capitalistici portano la collettività umana all'abisso.

La presente crisi è una nuova dimostrazione, pagata a caro prezzo, di cosa costano alla società l'opacità del sistema bancario (compreso per i specialisti) e la concorrenza che si fanno tra di loro gli stabilimenti bancari e finanziari per inventare e piazzare dei prodotti finanziari sempre più complessi e che hanno sempre meno rapporto con l'economia produttiva.

Tutto questo moltiplica, amplifica e peggiora il sobbalzi anarchici propri al funzionamento dell'economia capitalistica e porta ad immensi specchi.

Il controllo popolare del sistema finanziario diventa una necessità vitale per l'economia. Al contrario delle proposte dei riformisti di ogni sorta, una regolamentazione più stretta ed uno statalismo rafforzato non costituiscono di per sé una soluzione perché la questione è anche: chi controlla lo stato?

La finanziarizzazione ha spinto il carattere usurario dell'economia sotto l'imperialismo a tal punto che questo asfissia completamente la vita economica. La globalizzazione finanziaria ha spinto la globalizzazione capitalistica fino al suo limite estremo.

Le due evoluzioni congiunte hanno al tempo stesso tolto ogni tipo di significato vero sia all'"economia nazionale" che alla proprietà privata stessa. E' la stessa evoluzione del capitalismo a demolire le basi stesse sulle quali è stato edificato. Non sarà con un ritorno indietro della società che si potrà uscire da tale contraddizione.

Infatti ogni tipo di ritorno indietro sarebbe catastrofico. Il futuro al contrario sta nel porre fine alla proprietà privata dei mezzi di produzione e degli organismi finanziari, e cioè all'economia capitalistica sulla quale poggia.

8 ottobre 2007

La situazione interna

Testo proposto dalla maggioranza, votato dal 97% dei delegati al congresso

La situazione politica e l'elettorato di sinistra portano ancora il segno dell'elezione di Sarkozy, la cui strepitosa attività e la precipitazione a fare mettere in pratica dal suo governo tutte le sue promesse elettorali nonostante le impreviste difficoltà, soddisfano la frazione "franceseggiante" del suo elettorato.

Sicuramente non si tratta delle più grandi fortune e dei più grandi padroni del paese che già erano stati sostanzialmente serviti prima della sua elezione, sotto il precedente governo di cui fu membro senza discontinuità durante cinque anni ai ministeri chiavi, una parte del tempo alle finanze e per il resto al ministero degli interni.

Si tratta invece dell'elettorato piccolo-borghese, xenofobo e innanzitutto antioperaio che odia i poveri in cui vede solo dei parassiti e dei pigri che vivono alle spese di quelli che lavorano, cioè ovviamente il piccolo e il medio padronato. Questo elettorato è costituito di commercianti, di artigiani, di padroni di piccole e medie imprese che affermano fortemente che loro non contano mai le ore che fanno. E' innanzitutto a questi che Sarkozy si rivolgeva quando dichiarava che sarebbe stato negativo e inutile aumentare i salari, è che i salariati che volevano guadagnare di più dovevano solo lavorare di più. E per il resto, che si tratti del ticket sulla previdenza sociale, degli attacchi alle pensioni, dei licenziamenti più facili, ciò che impone per forza o cerca di imporre, Sarkozy cerca anche lì di soddisfare questa maggioranza che lo ha eletto, incoraggiando i suoi pregiudizi.

Il gran patronato infatti non ha nessun interesse economico sociale alle pene minime per i recidivisti che portano a condannare a pene smisurate gli autori di reati minori. Non ha neanche il minimo interesse ad una parte dei provvedimenti un po'troppo scioccanti come quello delle prove del DNA per ricercare la filiazione dei figli d'immigrati che richiedono il raggruppamento familiare.

I dirigenti delle grandi società bancarie, finanziarie o industriali, si fregano completamente delle misure decise o da decidere contro gli immigrati perché sanno perfettamente chi possono assumere e chi possono fare venire o meno. Sanno anche, senza aiuto del governo "delocalizzare" le attività che possono "esternalizzare", come dicono, nei paesi francofoni del Maghreb o d'Africa, oppure quando la lingua non ha nessuna importanza in India o in Cina.

D'altra parte bisogna sapere che questa volgare demagogia, che riguarda tutto o parte dell'elettorato lepenista, non ci si limita. Queste opinioni rappresentano una gran parte dell'elettorato perché, bisogna esserne coscienti, la destra è potente nella popolazione. Se Mitterrand fu eletto, questo fu in gran parte perché aveva tutto un passato di politico di destra, dal regime di Vichy ai governi della Quarta Repubblica, e di più ha beneficiato per la sua elezione di un aiuto di Chirac che lo preferiva a Giscard d'Estaing.

Detto questo, quelli che a sinistra assimilano la politica della destra e quella del padronato alla persona di Sarkozy fanno un errore e commettono un inganno. Il fatto che Sarkozy si sia fatto eleggere su un programma populista e demagogico, raccogliendo tutto quello che si trascina in seno all'elettorato tradizionale della destra, non toglie che è un semplice burattino in uno spettacolo di cui non è né il vero autore né l'ispiratore.

Tutti questi sono quelli che fra l'altro contribuiscono a fare dimenticare che Sarkozy è al potere dal 2002 e che la sua politica, dietro le sue burattinate, è quella dei governi che furono nominati da Chirac.

Infatti molti di loro, a sinistra, si affrettano a dimenticare o a fare dimenticare che hanno vergognosamente fatto votare per Chirac nel 2002 ed anche quindi per Sarkozy col pretesto allucinante che Le Pen sarebbe stato "alle porte del potere", il che era non solo inverosimile ma al tempo stesso un inganno e un tradimento politico nei confronti delle masse popolari. In particolare nei confronti del immigrati di cui si affermano abusivamente i difensori.

Personalizzare così la situazione attuale, compreso da parte dei militanti della "sinistra della sinistra", porta a pretendere che senza Sarkozy tutto andrebbe meglio, il che significa servirsi di un fatto particolare per nascondere l'insieme.

Tutto questo contribuisce a radicare l'idea che non si può difendersi contro la destra attuale senza sostituire Sarkozy mentre lo si può fare tanto quanto prima, a condizione di essere coscienti che difendersi contro la destra è innanzitutto difendersi contro il patronato, in particolare quello grande ma anche quello medio e piccolo. E' questi che bisogna fare indietreggiare. E fare mollare il patronato, i lavoratori lo possono fare ben più facilmente che di cambiare un presidente della Repubblica, tanto più che il risultato allora sarebbe di insediarne un altro che, anche se di sinistra, condurrà la stessa politica filopadronale se i lavoratori non si difenderanno.

Ovviamente non possono contare per questo sui dirigenti del Partito Socialista che fra l'altro protestano ben fiaccamente contro alcune misure della maggioranza attuale ma sono molto più preoccupati della sopravvivenza del loro partito, o più precisamente del loro proprio futuro, che della sorte dei lavoratori.

Aiutare questi ultimi a difendersi contro gli attacchi padronali messi in pratica dal governo, non è né nelle loro convizioni né nelle loro possibilità. Sono ugualmente i rappresentanti del gran patronato anche se non mirano alla stessa clientela della destra e sono quindi meno reazionari di quest'ultima quando si tratta di problemi di società che non toccano gli interessi del capitale.

Vogliono soltanto provare a rialzarsi, là dove lo possono e in particolare nelle prossime comunali, dallo scacco elettorale che hanno subito alla presidenziale, anche se nelle successive elezioni politiche hanno potuto conservare alcune posizioni che però non hanno dato loro la minima possibilità di intervenire contro l'attuale maggioranza parlamentare.

Per le comunali, sono guidati dagli stessi interessi, cioè conservare una clientela di eletti che dia loro mezzi sufficienti per resistere politicamente. Infatti i grandi partiti attuali, che siano al potere o nelle sue anticamere, esistono solo grazie ai loro eletti. Attualmente i socialisti si augurano solo una cosa, conservare i comuni che detengono, e in particolare quelli delle grandi città che dirigono e che danno loro i mezzi materiali e umani di continuare ad essere un gran partito. Sembra che non abiano neanche l'ambizione di riprendere gran parte di questi comuni alla destra, ma si accontenterebbero benissimo di spossessare il partito comunista di alcuni di questi per prenderne le leve di comando.

C'è da notare che i dirigenti del partito socialista continuano così a scavare la loro propria tomba politica. Dall'epoca di Mitterrand hanno senza tregua cercato di ridurre l'influenza, elettorale ma anche sociale, del Partito Comunista. In 25 anni ci sono praticamente riusciti. Ma come ha dimostrato la presidenziale, hanno assolutamente bisogno di un partito comunista elettoralmente potente che sia capace di raccogliere per il loro conto i voti del mondo del lavoro. Il Partito Socialista ha, esso stesso, distrutto questa forza che oggi manca perché non sono gli Hollande né i Fabius, né gli altri, che sono capaci di far credere ad un popolo che sprofonda sempre di più nella miseria che saranno loro ad ostacolare questa situazione.

Di tali giochi i lavoratori non hanno niente da aspettare. In mancanza di essere capaci di prendersela con i vincitori, i vinti rischiano di azzannarsi tra di loro. Si è visto come gran parte dei dirigenti socialisti aspettavano solo un segno del dito per precipitarsi verso la mangiatoia che Sarkozy gli proponeva,.

Quello più in mostra, Dominique Strauss-Kahn, non solo ha accettato il sostegno del governo attuale per accedere alla direzione del Fondo Monetario Internazionale, ma appena ha avuto il segnale verde del presidente francese si è precipitato attraverso il mondo per fare la sua campagna elettorale presso i vari capi di stato. E' evidente che il posto vale la pena poiché, durante cinque anni, avrà la sostanziale paga che accompagna il posto, senza parlare di tutto ciò che l'accompagna e senza parlare neanche della pensione d'oro che questi cinque anni d'esercizio gli varrà, in più di tutte le altre pensioni dovute ai suoi vari mandati.

Secondo questi signori, in questa società solo i ferrovieri e gli altri lavoratori dei servizi pubblici sarebbero dei privilegiati ma non questi uomini di potere dalle opinioni fluttuanti.

In quanto a quelli che non hanno obbedito a nessuna sirena, è semplicemente perché non ne hanno sentita.

Per quanto riguarda il mondo del lavoro, il suo futuro prossimo o lontano dipende soltanto della sua capacità collettiva di respingere gli attacchi del patronato.

Bisogna essere convinti che le leggi si possono cambiare o essere ritirate sotto la spinta delle lotte sociali. E' successo spesso che "la piazza" come dice il patronato, o gli scioperi, impongano delle leggi o le facciano abbandonare e questo può essere il caso di tutte le leggi che riducono i diritti e le conquiste sociali dei lavoratori.

Le lotte possono sorgere spontaneamente, ma potrebbero anche essere organizzate dalle direzioni sindacali. Questo capita ben di rado perché queste si accontentano spesso, o quasi sempre, di giornate d'azione senza domani. Infatti, ancora lì, è la loro propria base che può imporgli di organizzare le lotte necessarie.

Un'offensiva generale del mondo del lavoro non scatta col premere su qualche pulsante, dicono i dirigenti! Questo è vero, ma si può prepararla. Le giornate d'azioni, se si ripetono, possono dimostrare ai lavoratori stessi che sono molti a potere e a volere lottare. Una giornata d'azione riuscita può incoraggiare e trascinare un numero maggiore di lavoratori a partecipare a quella successiva, a condizione di averla annunciata in anticipo come minaccia contro il padronato e lo stato e come prospettiva per i lavoratori. Delle giornate d'azione che si succedono e si rafforzano in un periodo relativamente breve possono preparare e condurre ad uno sciopero generale.

Per questo, fra l'altro, i nostri compagni delle imprese partecipano alla vita sindacale e ci prendono le loro responsabilità. Non per reclutare dei militanti politici ma per spingere i sindacati a giocare il loro ruolo.

Però se si prepara e se si fa propaganda per un'offensiva generale, una controffensiva, non bisogna accontentarsi di rivendicazioni particolari o secondarie. Bisogna mirare a cambiare il rapporto di forze tra i dirigenti dell'economia e i lavoratori. Non si può parlare di rivoluzione in qualsiasi situazione. Ma tra il potere assoluto dei maestri dell'economia e una rivoluzione sociale, ci sono rapporti di forza intermediari. Ed una delle prime tappe in questo campo sarebbe di imporre il controllo dei lavoratori, della popolazione, sui conti di tutte le grandi e medie imprese.

Viviamo oggi in una situazione economica in cui è evidente che non si può, senza rischi maggiori, lasciare i finanziari governare la società e il mondo.

Si è visto con la crisi dell'immobiliare e dei prestiti a rischio negli Stati Uniti quanto il mondo della finanza era opaco, a tal punto che anche le banche non si fidano più l'una dell'altra perché non sapevano neanche le quali tra di loro erano in pericolo e le quali non lo erano. Mancava poco perché questa crisi, apparentemente minore all'inizio, potesse sboccare su una crisi mondiale, e non è detto che sia finito.

La popolazione, la società, non possono vivere sotto la minaccia permanente che fanno gravare tutta l'economia i maneggi finanziari.

Più vicino a noi c'è lo scandalo della EADS-Airbus in cui quello che si poteva immaginare viene adesso all'aperto. E' oggi ben chiaro che i più importanti azionisti di Airbus erano al corrente dei ritardi di parecchi anni nella fabbricazione dell'A-380. Questo implicava che le loro azioni perdessero parte del loro valore, e quindi hanno venduto discretamente le loro, prima di questo ribasso. Questa vendita quando è stata pubblica ha tra l'altro precipitato il ribasso in Borsa poiché le azioni dell'EADS hanno perso poco dopo più del 50%. Il peggio, anche se non c'è da stupirsi, sta nel fatto che questi finanziari hanno potuto vendere le loro azioni così rapidamente solo grazie all'aiuto dello stato che le ha ricomprate tramite la "Caisse des Dépôts et Consignations" ("cassa dei depositi e prestiti" che dipende dello stato). Tutto questo per portare ad una situazione che si è conclusa con l'annuncio di 10 000 soppressioni di posti di lavoro alla Airbus.

Solo la popolazione e i lavoratori erano nella più totale ignoranza di questi fatti.

E' almeno a questo che bisogna porre fine. Bisogna almeno controllare queste potenze del denaro per fare chiarezza su quanto succede nei consigli d'amministrazione, sapere chi detiene il denaro, da dove viene, dove va, dove passa e quali solo i progetti di questa gente. E' questo che, per noi, è una parte essenziale di un programma che possa, per un certo periodo, cambiare il rapporto di forze tra finanziari e lavoratori.

Per imporlo, ci vuole certamente una lotta di grande respiro, ma bisogna anche che uno sciopero generale non si limiti ad uno sciopero che faccia andare indietro il padronato su qualche particolare, o su delle rivendicazioni concesse da una mano e riprese rapidamente dall'altro.

Cambiare i politici che sono sul proscenio non cambierà niente di fondamentale a ciò che precede. Sia i partiti che si affermano di sinistra che quelli che si affermano apertamente di destra difendono questo sistema sociale economico, anche se nella forma la sinistra e la destra non hanno lo stesso discorso.

La nostra attività militante deve quindi continuare a difendere queste idee in seno al mondo del lavoro, ad organizzare il massimo di lavoratori, giovani e meno giovani, che siano intellettuali o manuali, per partecipare a queste battaglie ed acquisire la cultura e la formazione per esserne capaci.

21 ottobre 2007

Il partito che vuole la LCR

Testo proposto dalla maggioranza, votato dal 97% dei delegati al congresso

La LCR sembra impegnata in un'importante svolta organizzativa di cui non possiamo prevedere se avrà o meno un risultato.

Anche se riteniamo che il suo tentativo così com'è, e visto l'attuale paesaggio politico, sarebbe una buona cosa se riuscisse, siamo in quanto a noi in fondamentale disaccordo con quello che vorrebbe fare.

Infatti non è questo tipo di partito che vorremmo creare. Vogliamo creare un partito atto a partecipare al rovesciamento della società e all'edificazione di un altra società economica, costruita sulla base dell'alto livello di produttività raggiunto dal capitalismo ma con un altro modo di appropriazione e di ripartizione dei prodotti di questa economia.

Siamo convinti che non si può riformare questa società senza togliere dalle mani dei proprietari privati dei grandi mezzi di produzione le società finanziarie, banche, compagnie di assicurazione, l'estrazione delle materie prime, per farne delle proprietà della collettività. Solo tale espropriazione può permettere una regolazione dell'economia totalmente diversa di quella del capitalismo, cioè quella che poggia essenzialmente sulle "leggi" del mercato, pur "ammorbidite dagli interventi degli stati o dalle reazioni delle classi popolari.

Questo significa che in più della collettivizzazione e della statalizzazione, ci vuole una pianificazione dell'economia, con una centralizzazione più meno importante secondo i livelli e i casi, la cui scala può cambiare da una regione ad un continente, o addirittura al mondo intero. Oggi gli esempi sono numerosi di produzioni, di campi dell'economia o di relazioni tra gli uomini in cui una razionalizzazione su scala mondiale sarebbe indispensabile e potrebbe già essere perfettamente attuata, se questi campi non fossero luoghi di confronto in cui gli interessi di grandi gruppi economici si combattono con uno spreco enorme di prodotti del lavoro umano.

Si può elencare tra gli altri, il campo delle telecomunicazioni e degli scambi di informazioni tramite satelliti. Questa regolazione può essere solo mondiale, ma ogni trust delle telecomunicazioni copre il cielo del suo sistema particolare di satelliti che, un giorno o l'altro saranno un problema se non è già il caso. Si potrebbe aggiungere il traffico aereo trascontinentale e trasoceanico, la meteorologia, con la previsione non solo del tempo ma anche dei terremoti, o la gestione razionale di alcune risorse naturali quali le foreste, l'acqua, la pesca, il petrolio, il carbone o la produzione di elettricità.

Certamente non si tratta di spingere la centralizzazione all'estremo, ma bisogna renderla possibile.

È questa, l'unica rivoluzione che permetterà di arrivare ad una società migliore. Una società socialista o comunista in cui gli uomini saranno sbarazzati dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, della moneta, e in cui i progressi della produttività serviranno a liberare l'umanità di una gran parte del lavoro produttivo e non semplicemente ad aumentare i profitti dei trust e dei cartelli che utilizzano queste masse monetarie per speculare, provocando periodicamente crisi catastrofiche per le classi popolari.

Anche se gli obiettivi del partito che la LCR vuole costruire sono, dietro le parole "anticapitalistica", "anti-liberalismo" e tutti quelli dello stesso genere, un modo per essa ed alcuni altri di dire tutto quello che precede con un vocabolario nuovo e moderno, il semplice fatto di non osare, anche solo nei confronti dei militanti e dei membri di questo partito, chiamare un gatto gattop e una rivoluzione comunista col suo nome, è di per sé un modo di allontanarsi o di portare i suoi aderenti ad allontanarsi di tale obiettivo. O peggio, è un modo per non orientarli coscientemente verso tale obiettivo. Perché nel momento di una crisi sociale, è raro che ci sia molto tempo per scegliere le strade da seguire, che non sono sempre evidenti.

Se i membri del futuro partito che vuole costruire la LCR non dovranno affermarsi o credersi marxisti, questo volge le spalle alle idee fondamentali che precedono. Il marxismo vuol dire sostituire il capitalismo col collettivismo e il mercato con una pianificazione della produzione e della ripartizione e ovviamente, anche solo per permettere questo, l'espropriazione dei capitalisti. Disconoscere o dimenticare ciò che è il marxismo è anche volgere le spalle all'idea che, per sostituire l'apparato di stato della borghesia, ci vuole un altro tipo di stato e che le concezioni di Marx poggiano sul ruolo preponderante che solo il proletariato può giocare, non solo nella sua costruzione ma anche nel suo controllo quotidiano grazie al suo posto geografico poiché è la classe popolare più concentrata nei centri nevralgici.

Secondo i dirigenti della LCR, nessuno non saprebbe più cosa significa essere rivoluzionario, e per questo tale termine sarebbe in dibattito all'interno della loro organizzazione. Ovviamente un partito rivoluzionario, per esserlo non ha bisogno di porre la parola "rivoluzionario" nel suo nome. Nessuno partito importante della Prima, della Seconda o della Terza internazionale aveva questa parola nel suo nome. Ma nei loro obiettivi, nei loro statuti, per i loro militanti il concetto di rivoluzione sociale era sempre indispensabile.

Nessuno non sa più cosa significa il leninismo, cioè ciò che Lenin ha portato, la concezione di un partito rivoluzionario capace di aiutare il proletariato a prendere il potere ed a concepire una nuova forma di stato, in grado di sostituire lo stato della borghesia così come esiste ormai in tutti i paesi da due secoli. Un ruolo di tale partito è di insegnare ai suoi membri ciò che e stato dimenticato e non di sancire queste dimenticanze. E insegnare non vuol dire soltanto fare dei corsi, ma innanzitutto reclutare dei militanti che conoscono bene queste idee e le accettano in anticipo.

Stessa cosa per il trotskismo. Nessuno non sa più, secondo i dirigenti della LCR, cosa vuol dire essere trotskista, e forse è così! Ma ignorarlo vuol dire ignorare l'analisi fatta da Trotski della degenerazione staliniana e la battaglia che ha condotto contro di essa. Ignorare l'analisi trotskista di questa degenerazione viene a dire che i membri di questo futuro partito forse saranno maggioritari a pensare che lo stalinismo era contenuto nel comunismo e la "dittatura del proletariato" di Marx, nella rivoluzione russa e nel leninismo, col pretesto che storicamente questi avvenimenti si susseguirono.

Ignorare e non fare propri tutte le battaglie politiche di Trotski tra il 1924 e la sua morte sarebbe ignorare tutte le sue critiche della politica della Terza internazionale in questo periodo e la responsabilità di quest'ultima nell'arrivo al potere del nazismo in Germania, la più sanguinosa tragedia politica del secolo, e al tempo stesso ignorare l'analisi di Trotski sulla natura sociale del fascismo. Ignoranza che può portare ad assimilare qualsiasi fenomeno reazionario al fascismo e a rimanere disarmato e senza bussola politica il giorno in cui questo fenomeno sociale sorge veramente di nuovo, per esempio per decidere con chi le alleanze sono possibili, e addirittura indispensabili, e con chi sono da rifiutare.

Sarebbe anche ignorare o non capire il ruolo dello stalinismo nel fallimento della rivoluzione spagnola e nel tradimento dell'ondata di scioperi del giugno 1936 in Francia. Sarebbe né conoscere né capire le ragioni della politica nazionalista che, durante la seconda guerra mondiale, portò i partiti comunisti dell'Europa, francese, italiano, jugoslavo e greco ad acodarsi dietro de Gaulle, l'Inghilterra e gli Stati Uniti perché, anche se Trotski era già stato assassinato, fu il suo insegnamento a permettere a certi militanti di non cadere nel nazionalismo e la sacra unione.

Bisogna aggiungere che voltare le spalle agli insegnamenti di Trotski sarebbe anche ignorare la critica che esso fece dell'atteggiamento di Stalin nei confronti della rivoluzione cinese del 1927, in cui quest'ultimo costrinse il partito comunista cinese ad entrare nel Kuo-Ming-Tang, consegnando così i comunisti cinesi a Ciang Kai Cek che li fece massacrare. In questa occasione Trotski fece una critica tanto sviluppata quanto violenta contro la politica dei "fronti" che consisteva non solo a combattere momentaneamente accanto ad altri partiti politici dei nemici comuni, ma anche a rinunciare ad ogni indipendenza politica per fondersi politicamente in un tale insieme, qualche volta con nemici di classe, disorientando così la classe operaia e privandola di ogni organizzazione propria, il che fu tragicamente confermato in questa occasione e poi in numerose altre occasioni.

Ignorare gli interventi di Trotski dopo il massacro dei comunisti, quando Mao cominciò la sua "lunga marcia" in testa di un esercito contadino, sarebbe ignorare per sempre che una rivoluzione socialista non può sorgere dai contadini in armi, anche rivoluzionari, se ci manca l'intervento determinante e cosciente del proletariato. Ciò che abbiamo visto da più di cinquanta anni sia in Asia che in America Latina, in particolare a Cuba o in Africa, ne è l'illustrazione. Le illusioni a tale proposito rinascono tra l'altro costantemente dalle loro ceneri. Ecco perché ci teniamo ad affermarci e a fare sì che tutti i nostri militanti sappiano di essere trotskisti, così come sono leninisti e marxisti.

Certamente ci si può affermarsi o credersi tali, e non esserlo! E' tra l'altro il caso dei gruppi della Quarta Internazionale da un po' più di 65 anni, un periodo che però sembra chiudersi con l'abbandono affermato di queste concezioni. Ma noi, vogliamo fare sopravvivere queste idee e il partito che vogliamo creare ha tra l'altro l'obiettivo di trattenerle e di farle rivivere, e non di farle cadere nell'oblio.

Anche se il partito che dobbiamo costruire non ha sempre bisogno di portare, nella sua appellazione, né comunista né rivoluzionario o trotskista -il che tra l'altro è il nostro caso per ora, è assolutamente necessario invece che tutti quelli che entrano in un tale partito sappiano cosa è un rivoluzionario marxista e che lo siano, sappiano cos'è un trotskista e che lo siano. Se no, non si può costruire un'organizzazione in grado di intervenire in una rivoluzione sociale che potrebbe cambiare il mondo.

Per tutte queste ragioni, non può essere né nei nostri obiettivi né nelle nostre convinzioni di partecipare al partito che vuole costruire la LCR.

Se diciamo che ci auguriamo che ci riuscisse, questo è per tutt'altre ragioni. È solo perché non tutti possono essere rivoluzionario trotskisti e molta gente, molti giovani in particolare possono avere voglia di combattere i danni generati dalla società attuale. Alcuni si impegnano in organizzazioni non governative per intervenire nei paesi sottosviluppati, altri lo fanno vicino a noi per aiutare i senza documenti o i senzatetto, altri semplicemente sdegnati dalle misure del governo vogliono opporcisi a seconda dei loro mezzi. E sarebbe una buona cosa che, in mancanza di essere rivoluzionari, possano trovare un organismo importante, vasto, in grado di agire e che possa corrispondere alle loro idee.

Questo sarebbe potuto succedere con Attac, che è crollato almeno per ora. Forse avremo questo col partito che la LCR vuole costruire. Questo sarebbe utile nel paesaggio politico attuale in cui né il Partito Socialista, né il Partito Comunista, offrono uno spazio sufficiente alla gioventù e a molti di quelli che sono meno giovani ma sono sensibili ai misfatti della società.

Sarebbe forse un partito che assomiglierebbe a fu il Partito Socialista Unificato (PSU) che ebbe il suo quarto d'ora di fama al momento della guerra d'Algeria. Ovviamente bisognerebbe cambiare certe cose perché la lotta contro Sarkozy che predica la LCR non costituisce di per se un programma, anche se pare che se ne possa accontentare. Ma ovviamente se la LCR riesce a costruire questo partito, dovrà adottare un programma a sua misura.

Per questo, pur augurandoci questa riuscita, non è quello che vogliamo costruire noi e per questo, pur guardando questo tentativo con occhio attento e favorevole, rifiutiamo di partecipare a questa costruzione, particolarmente come sembra che la LCR lo voglia fare, tramite le elezioni comunali.

4 ottobre 2007

La nostra influenza politica

Testo proposto dalla maggioranza, votato dal 97% dei delegati al congresso

Da anni la nostra influenza politica al di là di alcune regioni, cioè su scala nazionale, dipende innanzitutto delle nostre partecipazioni elettorali. L'esperienza dell'ultima presidenziale dimostra però che sarebbe pericoloso accontentarsene, anche se questa influenza non è scomparsa come l'abbiamo potuto verificare notevolmente durante le carovane di questa estate.

Bisogna quindi riequilibrare il nostro intervento verso attività politiche che ripongono sul nostro intervento militante, utilizzando tutte le forze di cui disponiamo.

Fra le nostra attività politiche regolari ci sono i nostri bollettini di fabbrica. È un'attività molto importante perché in parecchie centinaia di imprese questi giornali sono ricevuti ogni due settimane da migliaia di lavoratori di tutte le professioni. Come tutti i nostri compagni lo sanno, hanno un lato locale, ciò che chiamiamo gli echi dell'impresa, che denunciano concretamente, con esempi tratti dall'esperienza quotidiana dei lavoratori dell'impresa, lo sfruttamento e il carattere che può prendere in questo o quel caso, in questa o quella situazione, in questa o quella impresa.

Quando denunciamo la lotta di classe portata avanti dal patronato, spesso ci danno dell "anacronistico". Ma oggi anche la grande stampa, anche i poteri pubblici, sono costretti di riconoscere che una tale guerra sociale viene condotta permanentemente dai datori di lavoro contro i salariati. Per esempio ci sono stati ultimamente un'epidemia di suicidi in certe imprese. Questi suicidi hanno preso un carattere tanto più spettacolare in quanto si sono svolti nel seno stesso delle imprese, e quindi la grande stampa non li ha potuto ignorare. Ma ce ne sono stati certamente molti altri che, pur avendo le stesse cause, si sono svolti in un domicilio privato, cioè laddove la responsabilità del datore di lavoro non era così visibile.

E' evidente che quello che viene chiamato un'epidemia di suicidi è dovuto alla pressione che si esercita sui salariati di tutte le imprese e anche sui quadri, da parte dei padroni tramite la gerarchia, tramite i capi o qualche pressione meschina, come per esempio quelle che si esercitano per non dichiarare come tali gli infortuni sul lavoro, semplicemente per abbassare le trattenute padronali che gli sono collegati.

Essendo venuta meno la lotta di classe dalla parte dei lavoratori, che ha preso solo una forma difensiva, per alcuni incapaci di resistere da soli rimane solo il ricorso all'autodistruzione.

E' di tutte queste pressioni, tra l'altro, che la nostra stampa di impresa tratta durante tutto l'anno, di questo e di molte altre cose, più o meno gravi fortunatamente. La nostra stampa è una stampa di difesa dei lavoratori che la ricevono come tale sul loro luogo di lavoro. Questo ci vale qualche volta delle minacce e dei tentativi di fare causa da parte dei datori di lavoro. Non si oppone ai sindacati, e non li sostituisce (i nostri compagni sono anche tra l'altro militanti sindacali) ma li sopporta, facendo conoscere largamente ciò che qualche volta non possono neanche dire.

Un altro aspetto di questa stampa, e non è quello minore, è di essere altro che ciò che potrebbe essere solo una stampa sindacale radicale, cioè è una stampa politica, socialista e comunista nel senso fondamentale di questi termini. Infatti, comporta sempre un editoriale che tratta di argomenti politici nazionali. Questo editoriale è comune a tutta la nostra stampa d'impresa, qualunque sia l'impresa in questione. Tutti i nostri compagni, tutti i nostri simpattizzanti, tutti quelli che formano il nostro pubblico lo sanno.

Un altro aspetto essenziale della nostra attività politica è ovviamente la pubblicazione, la diffusione e la vendita del nostro settimanale, che tratta ogni settimana di una pluralità di argomenti politici che riguardano le società di classe in cui viviamo, senza dimenticare tutte le corrispondenze di imprese che ne costituiscono una gran parte.

Sono questi due tipi di attività politiche di propaganda a fare la nostra identità ed a fare sì che siamo un'organizzazione la cui attività e la cui influenza hanno come centro di gravità il mondo del lavoro.

Ma il fatto di limitarsi alle imprese in cui la nostra stampa è presente, e a vendite pubbliche del giornale puntuali in alcune città, anche se numerosi, limita la nostra influenza perché il nostro settimanale è soprattutto venduto "dalla mano alla mano".

E' quindi necessario estendere il nostro rla nostra influenza politica con l'aumentare le nostre attività politiche locali al di fuori delle imprese, cioè di fare propaganda regolare nel maggior numero di comuni possibile in cui non interveniamo al solito con le nostre solite attività.

Lo facciamo durante il periodo dell'estate con quello che chiamiamo le nostre "carovane politiche" organizzate da compagni che durante due settimane delle loro vacanze d'estate percorrono una regione, da una città all'altra, per averci un intervento politico, vendere la nostra stampa, distribuire volantini politici, fare delle riunioni, fare delle proiezioni, in una parola intervenire politicamente nelle comuni in cui non siamo visti al solito.

Dobbiamo generalizzare quest'ultima attività ed effettuarla da durante tutto l'anno. E' difficile fissare un obiettivo numerico concreto, ma possiamo mirare a centinaia di comuni nelle quali potremmo assicurare una presenza regolare relativamente permanente.

Queste attività dovrebbero essere sul modello di ciò che facciamo durante le nostre carovane d'estate, ma con una differenza: le nostre carovane d'estate passano solo una volta all'anno in una medesima città. In questo caso torneremo con una periodicità regolare ma il più spesso possibile nel numero massimo possibile di comuni.

Ciò che fa il nostro successo durante le carovane é il fatto che siamo numerosi, ogni mattina ci riuniamo per ripartire i compiti, mangiamo insieme e tutte le sere facciamo il bilancio delle attività della giornata, discutendo di ciò che è stato fatto. E' questo che dovremo moltiplicare.

Le carovane progettate, di cui alcune sono già state adoperate come esperienza, potrebbero mobilitare durante due o tre giorni gli stessi compagni. Agiremo nel numero massimo possibile di comuni, nello stesso modo che durante le carovane d'estate, compreso con tende, striscioni, cartelli, chiedendo le autorizzazioni se necessario, affittando sale per proiezioni video, ecc.

In secondo tempo, quando grazie a questa prima tappa avremo moltiplicato le esperienze, potremmo associare il massimo numero possibile di nostri simpatizzanti attivi (ne abbiamo molti) che potrebbero venire per una giornata o due ed acquisirebbero l'esperienza delle carovane in un ambiente di compagni che già lo abbiano in gran parte.

Questo ci permetterebbe, se riusciamo a mobilitare tutti i nostri simpatizzanti, di avere una presenza locale ogni due mesi, in parecchie centinaia di comuni.

Questo deve essere un orientamento, non solo per i mesi ma per gli anni futuri, perché è un'attività che dovremo allargare progressivamente, associandovi tutti i nostri simpatizzanti, mettendo queste attività alla loro portata dal punto di vista materiale e dal punto di vista della disponibilità.

10 ottobre 2007

Comunali 2008

Testo proposto dalla maggioranza, votato dal 97% dei delegati al congresso

Anche se la campagna vera e propria per queste elezioni non è ancora cominciata, il mondo politico ne è pure molto preoccupato. Le preoccupazioni vertono però in maggior parte a sinistra più che a destra, per il problema delle alleanze possibili.

L'UMP può cercare solo dalle parti di ciò che è già acquisito, o di quelli che rimangono intorno a Bayrou. Ma questa scelta nelle grandi città dipenderà certamente dei rapporti di forza locali perché, per definizione, il centro guarda dalle parti dove ha più da guadagnare.

A sinistra la situazione è più complessa. Non si può neanche dire che il PS sia egemonico, diviso come lo è al momento attuale. Però per le elezioni comunali è poco verosimile che si divida veramente. Invece i suoi rapporti col PC sono complessi. In gran parte delle città che sono attualmente sotto direzione del PC, il PS è tentato di prendere il primo posto, cioè il posto di sindaco. Per esempio potrebbe fargli concorrenza al primo turno, sperando di arrivare in testa in modo che l'unificazione al secondo turno per vincere la maggioranza comunale imponga il PS davanti al PC.

L'unico problema in quest'ottica per le sinistra sarebbe che l'ondata che ha portato la destra al potere, che come abbiamo visto nelle politiche non è più uno tsunami, sarebbe ancora abbastanza forte da rischiare di togliere qualche municipio alla sinistra, costringendo così PC e PS ad unirsi in certi posti sin dal primo turno.

Rimane l'estrema sinistra. Se si guardano i risultati, non solo alla presidenziale in cui nessuna formazione ha raggiunto più del 5%, ma anche nelle politiche, le liste dell'estrema sinistra saranno in brutta posizione nella corsa, non solo per conquistare municipi che comunque sono praticamente al di fuori della loro portata, ma anche semplicemente per avere qualche eletto comunale.

Ricordiamo che perché una lista possa candidarsi al secondo turno bisogna che abbia raccolto il 10% di voti al primo turno e che, anche per potere fusionare al secondo turno con un'altra lista che abbia ottenuto il 10%, bisogna che abbia ottenuto almeno il 5% dei voti al primo.

Nessuna lista dell'estrema sinistra o della sinistra della sinistra è assicurata di ottenere il 10% o addirittura il 5% dei voti al primo. Per questo, queste organizzazioni e noi stessi saremo aperti a concludere delle alleanze sin dal primo turno quando si potranno progettare, perché bisogna ancora sapere su quali basi e con chi.

Gli eletti comunali che abbiamo ottenuti nel 2001 sono quasi tutti stati eletti in queste circostanze relativamente particolari. Cioè nei casi in cui una lista aveva ottenuto la maggioranza assoluta sin dal primo turno, il che le dava almeno il 75% dei posti, essendo gli altri posti ripartiti alla proporzionale. E' soprattutto in questi casi che abbiamo potuto avere degli eletti, ma soltanto quando avevamo riempito la condizione aggiuntiva di avere più del 5% dei voti sin dal primo turno, se no non eravamo ammessi alla ripartizione e, qualche volta, ci voleva ancora di più per avere un solo eletto, secondo il numero di posti che rimanevano da ripartire.

Questo significa che nel 2008, anche se riusciamo come nel 2004 a presentare più di 5000 candidati in 128 comuni, ciò che è possibile, sarà senz'altro ancora più difficile che nel 2001 ottenere degli eletti. Ora, nelle comunali, bisogna avere degli eletti.

Infatti nelle elezioni come la presidenziale, sappiamo sin dall'inizio che non saremo eletti. Anche se le fossimo, al di fuori di un'ondata straordinaria di crisi sociali, non potremmo fare niente. La nostra partecipazione è soltanto destinata a popolarizzare delle idee, tutto o parte del nostro programma sociale, farlo conoscere in modo che sia ripreso, speriamo, durante le lotte sociali futuri. Ovviamente questo è limitato ma è pure enorme rispetto ai nostri mezzi attuali di popolarizzare le nostre idee. In tale contesto le alleanze non ci servirebbero a niente. Aggiungere alla presidenziale dei voti, con la LCR per esempio, non cambierebbe questa situazione. Ci divideremmo, cioè diminuiremmo, i nostri tempi di intervento e d'altra parte saremmo costretti di negoziare sul programma da difendere. Tanto vale difendere ognuno l'integralità del nostro programma e di più disporre ognuno di un tempo completo di intervento sui media. Tutto ciò che ciascuno ha da dire di diverso potrebbe essere espresso, e ciò che abbiamo da dire in comune lo sarebbe due volte, il che non è troppo!

Per le elezioni comunali, il problema è diverso perché la campagna si divide in un gran numero di comuni. Pur facendo una stessa campagna nazionale, non potremmo candidarci dappertutto. Bisogna molto spesso partire da situazioni locali per collegarle ai problemi generali della società. Ma, differenza ancora più notevole, abbiamo anche la possibilità di avere degli eletti comunali. L'abbiamo verificato a varie riprese da parecchie elezioni.

Dobbiamo quindi preparare queste elezioni comunali e candidarci nel massimo numero possibile di comuni, almeno lo stesso numero che nel 2001 cioè 128, e molto di più se possibile perché più presenteremo liste, e più avremo possibilità di incontrare delle situazioni favorevoli come quelli che ci hanno permesso di avere degli eletti nelle comunali precedenti. E'quindi necessario costituire e candidare il massimo numero possibile di liste.

Avremo ovviamente il problema delle eventuali alleanze. Non siamo più nel 2001. La destra ha forse ancora il vento in poppa. L'elettorato può ancora essere tramatizzato dalla sua presenza alla testa dello stato, e tentato di votare per quelli dei partiti di sinistra che hanno più possibilità di vincere e, di più, essere deciso a non disperdere i suoi voti. Una situazione che potrebbe essere molto sfavorevole alla sinistra della sinistra e all'estrema sinistra.

Avevamo previsto da molto tempo, almeno due anni, che rischiavamo di essere laminati alla presidenziale. Non avevamo anticipato questo risultato ma avevamo detto e scritto che sarebbe probabilmente molto inferiore a quello che avevamo avuto nel 2002.

Ma qualunque sia la situazione, dobbiamo lo stesso fare lo sforzo di una campagna perché ottenere eletti comunali è estremamente importante per la nostra influenza politica. Questi eletti sono un punto di ancoraggio in una città e l'asse intorno al quale possono gravitare le nostre attività locali.

Queste attività possono ovviamente essere svolte senza che abbiamo un eletto. Abbiamo delle attività locali in un numero ben maggiore di comuni rispetto a quelle in cui abbiamo degli eletti. E anche senza eletto, dovremo agire in un numero ancora maggiore di posti che negli anni precedenti. Ma i nostri eletti rafforzerebbero l'impatto delle nostre attività. Questo rappresenterebbe una presenza permanente della nostra organizzazione e delle nostre idee, al contrario per esempio delle attività puntuali di propaganda che facciamo durante le nostre carovane d'estate, che vogliamo però moltiplicare, come lo diciamo d'altra parte, ed estendere al di là del periodo d'estate.

La conclusione è che dobbiamo provare a costituire delle liste nel numero massimo possibile di località. Questo non ci impedirà però di studiare e di essere aperti ad ogni proposta di alleanza, che studieremo in funzione delle situazioni, dei rapporti di forza locali e delle possibilità di avere eletti che queste alleanze ci potrebbero effettivamente aprire. Non abbiamo infatti nessun interesse a concludere delle alleanze su un programma di accordi con i nostri eventuali alleati se questo non ci consentisse di avere degli eletti, o addirittura ce lo impedisse, tanto più che abbiamo la possibilità di candidarci in modo indipendente in molti posti.

8 ottobre 2007

I rivoluzionari e la controffensiva dei lavoratori

Testo proposto dalla frazione "L'Etincelle", votato dal 3% dei delegati presenti al congresso

I primi passi della presidenza di Nicolas Sarkozy sono stati a misura del suo passato, tutto al servizio della borghesia: sindaco di Neuilly che conta la più forte proporzione di contribuenti all'imposta sulla fortuna del paese, ministro delle finanze di Balladur, più volte ministro sotto Chirac prima di succedergli. La sua singolarità sta nell'avere, sin dal suo primo 14 luglio, lanciato una serie di misure antioperaie: contro i salari che potrebbero aumentare solo col sovrasfruttamento, contro l'occupazione che dice di volere favorire con l'aiutare i padroni a licenziare e col sopprimere ogni anno circa 20 000 impiegati statali, contro le tutele sociali che vuole diminuire con l'aumento dei ticket e col diminuire i rimborsi delle medicine, contro le pensioni, contro il diritto di sciopero con l'istituzione del "servizio minimo" nei trasporti... Senza dimenticare la legge che inasprisce le condizioni di ingresso e di vita degli immigrati, una frazione della classe operaia il cui sovrasfruttamento da parte del patronato viene così facilitato. Da un lato una serie di sacrifici per le classi popolari, dall'altro elargizioni a tutto ciò che la Francia conta in termini di piccoli e grandi padroni, di azionisti e di rentiers, con la moltiplicazione delle sovvenzioni a cui si è aggiunto un "pacchetto fiscale" di circa 15 miliardi di euro. E poiché il primo servito deve essere se stesso, Sarkozy non se n'è scordato aumentando del 140% il suo proprio salario.

I primi mesi di Sarkozy e del suo primo ministro Fillon sono quindi stati segnati dalla volontà di stordire, agendo rapidamente e maltrattando tutti. La loro strategia è di attaccare tutti (nelle classi popolari) il più rapidamente possibile, e la loro tattica è di colpire uno dopo l'altro, per confrontarsi solo con resistenze isolate, di cui bisogna ad ogni costo evitare la convergenza. Forte del suo relativamente buon risultato alla presidenziale (53% dei voti validi), Sarkozy si è immediatamente "coperto" dal lato sinistro. Si potrebbe dire che è stato abile se non fosse stato così facile, tanto da queste parti si possono trovare personaggi pronti a voltare gabbana per ottenere un posto: da Dominique Strauss-Kahn intronizzato presidente dell'FMI grazie al presidente, a Bernard Kouchner dalle ambizioni senza frontiere, a Fadela Amara che una volta si affermava "né puttana né sottomessa", a Martin Hirsch ex presidente di Emmaüs che ha trovato un tetto migliore oppure Jacques Attali, eterno "consigliere" del presidente ( di cui evidentemente il colore politico conta ben poco)...

La maggior parte dei membri del Partito Socialista rimane però "di sinistra", almeno nel modo in cui questa sinistra si è dimostrata nella campagna presidenziale: aperta al centro! Soprattutto in questo periodo di preparazione febbrile delle comunali 2008 in cui il PS può sperare di risalire un pò la china e si prepara ad utilizzare tutte le opportunità, anche se ne trova ben poche dalle parti di questo centro ridotto in cenere da Sarkozy. Ma questa sinistra limita la sua protesta a strillare come un'aquila contro il trasformismo politico o contro un articolo (le prove del Dna utilizzate per chiudere le frontiere al raggruppamento familiare) effettivamente iniquo... di una legge che lo è interamente. Alcuni soltanto (ma non Hollande che come Sarkozy non vuole una consultazione su quell'argomento) ci aggiungono un po' di sdegno per il modo disinvolto con cui si intende imporre il trattato europeo... che un referendum ha già respinto. Ma di fronte alle misure o ai progetti scellerati riguardo alle pensioni, ai salari, agli straordinari, ai licenziamenti o alle soppressioni di posti di lavoro, la debolezza e la timidezza delle critiche ben poco nascondono l'approvazione tacita, o addirittura chiaramente proclamata da alcuni come Manuel Valls, della necessità delle "riforme".

Sarkozy e i suoi ministri hanno anche incluso nel loro "pronto per l'uso" governativo la neutralizzazione dei sindacati ed associazioni (ecologiste in particolare) coinvolgendoli in un intreccio di "concertazioni". Ci sono tanti salotti dove si può parlare, quelli dell'Eliseo, quelli di Matignon, quelli dei segretariati e sottosegretariati dei ministeri, quelli di una moltitudine di "commissioni" ad hoc, senza dimenticare quelli del padronato... a tal punto che François Chérèque della CFDT che si ostenta quale miglior interlocutore per qualunque negoziazione (ma non è l'unico!) ha potuto lamentare di essere in difficoltà per un calendario troppo pieno. I dirigenti sindacali si sono servilmente prestati a questo gioco di conversazioni e consultazioni. Uno dopo l'altro, Chérèque per la CFDT, Jean-Claude Mailly per FO e Bernard Thibault per la CGT hanno frequentato le anticamere dell'Eliseo, anche prima dell'intronizzazione del nuovo presidente, e la maggior parte di essi si è congratulata di avere trovato lì un "ascolto". E queste discussioni nell'atmosfera felpata dei salotti, sul mercato del lavoro, sul pubblico impiego, sulla fusione Unedic-Anpe (casse di disoccupazione e agenzia nazionale per l'occupazione), e fra poco sulla rappresentatività sindacale o il finanziamento dei sindacati, a cui pare che gli apparati (in particolare quello della CGT) accordino una certa importanza, sono le prime attività di questi sindacalisti, svolte ben lontano dalle preoccupazioni dei lavoratori, e ancora più lontano dal loro controllo. L'integrazione dei sindacati alle istituzioni dello Stato certamente ha già una lunga storia, ma prende un nuovo aspetto in Francia dopo il lento ma spettacolare declino del partito comunista e i suoi sobbalzi, mai ben durevoli, di combattività. Non ci sarebbe davvero più niente da negoziare? Infatti, per i lavoratori non si negoziano più che dei passi indietro, compreso una moltitudine di accordi aziendali o settoriali in regresso rispetto al codice del lavoro. Ma per gli apparati sindacali, che non vivono più dei contributi dei loro aderenti, sembra che rimanga qualcosa, se non soldi, da ricavare dai fiumi di parole.

L'attacco contro i "regimi speciali" pensionistici, preparato da molto tempo e finalmente lanciato alla metà d'ottobre, illustra in modo particolare la politica di Sarkozy e Fillon: colpire una categoria, provando a neutralizzare le altre, o addirittura a rivolgerle contro la prima. Questa volta erano presi di mira dei cosiddetti privilegiati (che non lo sono per niente, tanto è basso l'ammontare della pensione per la maggior parte di essi) in nome dell'equità, senza neanche nascondere che questo "allineamento" è il preludio ad un nuovo e prossimo deterioramento per tutti, dovendo gli anni di contributi necessari per una cosiddetta pensione "piena" aumentare di nuovo sin dal 2008, per raggiungere 41 anni, poi 42 anni... Non c'è dubbio che la squadra al potere vuole anche, isolandola, sconfiggere la resistenza di una categoria di lavoratori notoriamente sindacalizzata e combattiva (il 1995 è ancora nelle memorie). Non c'è dubbio che vuole poi utilizzare questa vittoria come un cuneo per attaccare tutti gli altri lavoratori. Non c'è dubbio neanche che a Sarkozy piacerebbe immaginarsi nei panni di Reagan e Thatcher che hanno plasmato la loro fama di intransigenza contro la classe operaia (e poi proseguito la loro offensiva contro la popolazione) grazie alla vittoria rimportata su categorie resistenti e organizzate di lavoratori, i controllori aerei nel caso del primo, i minatori di carbone nel caso della seconda.

I ferrovieri, elettricisti e gasisti, agenti della RATP (Trasporti parigini) e di altre imprese di trasporto pubblico, hanno cominciato la loro battaglia rispondendo massicciamente all'appello delle federazioni sindacali il 18 ottobre. Una minoranza ha evidenziato la sua volontà di proseguire i giorni successivi rispondendo all'appello di una minoranza di queste federazioni, SUD e FO. Il sostegno degli ambienti popolari così come la partecipazione spettacolare dei ferrovieri, nessuna categoria esclusa compresi i quadri, nessuna età esclusa compresi i più giovani nuovi arrivati, è stato senz'altro una sorpresa per tutti quelli che scommettevano sulla divisione. Certamente non è stata una delle migliori per Sarkozy, ma neanche necessariamente per le direzioni sindacali che, di fronte alla forte attesa di un seguito al movimento, hanno appena annunciato una nuova giornata il 14 novembre e la presentazione per questa data di un preavviso nazionale di sciopero "ad oltranza" e "riproponibile ogni 24 ore". Dei sindacati della Edf-Gdf (FO e CGT) hanno raggiunto l'appello e quelli della RATP dicono che anche loro lo potrebbero fare.

Per evitare la trappola di uno sciopero duro e lungo di una sola categoria (oggi per esempio i ferrovieri) che un lungo isolamento potrebbe portare ad uno scacco, è assolutamente necessario che quelli che impegnano la battaglia siano consapevoli che la difesa delle pensioni ("regime speciale" come "generale"), o quella dei salari o dell'occupazione, del pubblico così come del privato, sono assolutamente collegate (questo è anche vero per le altre battaglie sociali, quella delle vittime dell'amianto o quella per la casa ad esempio); è necessario quindi che entrino in lotta con una volontà e con obiettivi che attraggano l'insieme dei lavoratori. Questa è la condizione necessaria, anche se non è sufficiente, perché altri possano decidere di raggiungere la loro lotta.

Eppure questo corrisponde ben poco all'orientamento delle direzioni sindacali. Neppure di quelle che raccomandano uno sciopero duro ma su obiettivi categoriali. Nel caso dei ferrovieri, infatti, non sembra che SUD o FO abbiano insistito perché il nuovo sciopero possa coincidere con la giornata del 20 novembre già annunciata per gli insegnanti e agenti della pubblica istruzione, il personale della sanità, gli impiegati di tutti i ministeri... Neppure di quelle che insistono sull'unità ma per limitare i movimenti nel tempo, come la CGT, che ha giustificato il rifiuto di riproporre lo sciopero il 19 ottobre con la preoccupazione che gli scioperanti non rimanessero soli, e quindi aspettassero un'ulteriore scadenza sindacale più unificante. Sembra che gli stessi responsabili federali della CGT non abbiano neanche militato per un'azione comune con gli statali il 20 novembre e adesso che non pongano neanche l'accento della loro propaganda sulla comunanza di interessi dei vari settori. Al contrario alcune delle loro strutture insistono sulla necessità di porre all'ordine del giorno le rivendicazioni il più possibile locali, quelle appunto a cui gli altri lavoratori o addirittura i ferrovieri di altri settori avrebbero molta difficoltà ad associarsi!

Il rifiuto delle direzioni sindacali di situare il conflitto in un ambito più generale di quello delle pensioni va di pari passo con la loro propensione ad ammettere che ci sarebbe una necessità di "riformare". Così nei ferrovieri ci sarebbe veramente "un problema delle pensioni" su cui quindi bisognerebbe "negoziare". Su che cosa? Come? Sul numero degli anni di contributi? Sugli sgravi alle pensioni? Il sindacato corporativo dei conduttori, la FGAAC, si è già prestato a questo gioco per giungere a presentare come una vittoria il pensionamento dei conduttori... a 55 anni invece di 50. Con ragione la maggior parte dei lavoratori oggi non vede cosa ci sarebbe da negoziare. Ma tutte le federazioni che hanno dato di nuovo un preavviso per lo sciopero del 14 novembre continuano a chiedere che ci sia un "tavolo di discussione" col governo, o delle discussioni con la direzione delle ferrovie, o tutto questo in una volta... evocando la possibilità, in caso di "avanzata" al riguardo di queste istanze, di un ritiro del preavviso.

Nessuna direzione sindacale, e non più delle altre quella della CGT che pretende di rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori, mette chiaramente in rilievo la mistificazione della cosiddetta necessità di "riformare". Eppure non c'è un "problema delle pensioni", un problema che sarebbe collegato all'aumento della durata della vita o del cosiddetto fossato tra il numero di persone attive e quello dei pensionati, c'è solo un'enorme mancanza di entrate per le casse della previdenza sociale, per il fatto che la disoccupazione e la stagnazione dei salari diminuiscono le trattenute. E' chiaramente perché ci sono un'emorragia dell'organico nel pubblico impiego e delle ondate di licenziamenti nel settore privato, perché c'è una stagnazione e qualche volta anche un calo dei salari, che le casse sociali si svuotano e non possono più garantire le tutele sociali, per le pensioni come per la sanità. Senza parlare delle decine di miliardi di euro che Sarkozy e la sua squadra, come i loro predecessori, hanno prelevato da queste casse per regalarle al padronato. Dalla situazione deriva quindi la necessità di mettere le lotte, che oggi sono state innescate dai ferrovieri e domani lo saranno da altri, sotto il segno della risposta dell'insieme del mondo del lavoro per un programma le cui grandi linee potrebbero essere le seguenti:

-Aumento generale di 300 € almeno di tutti i salari, pensioni e indennità.

-Giù le mani dalle pensioni dei regimi speciali e dalle altre, e invece garantire" l'equità" col ritorno ai 37,5 anni di contributi per tutti.

-Divieto di tutti i licenziamenti nel privato, e in particolare nelle imprese e nelle loro filiali che fanno profitti.

-Divieto di tutte le soppressioni di posti di lavoro nel pubblico impiego e invece assunzioni massicce nelle scuole, negli ospedali, nei trasporti, negli asili nido.

-Controllo dei lavoratori su tutti i conti e prelievi dello Stato a favore del padronato, su tutti i conti, benefici e frodi delle aziende, e requisizione dei super dividendi (azioni o altre stock-options) a beneficio delle classi popolari.

Il recente sciopero, durato alcuni giorni, degli assistenti di volo della Air France, tra cui molti giovani molto decisi, per un aumento del loro salario e un miglioramento delle loro condizioni di lavoro, dimostra a suo modo quanto i lavoratori sono pronti a reagire se e quando vengono chiamati a farlo. Come molti lavoratori di piccole aziende del privato la cui rabbia contro i bassi salari è scoppiata per qualche giorno in questi ultimi mesi. Alla Air France la tattica sindacale dura ma "particolarista" è tanto più da rimpiangere che la lotta riguardava la questione molto generale dei salari mentre sulle piattaforme aeroportuali di Roissy e Orly lavorano decine di migliaia di lavoratori che hanno le stesse difficoltà per arrivare a fine mese. Eppure la possibilità di un contagio era la più grande minaccia che si poteva brandire contro la Air France, soprattutto nel clima sociale un po' più acceso grazie alla mobilitazione dei ferrovieri, degli elettricisti e dei gasisti, e fra poco degli statali.

Lo stesso si può dire dei conflitti sparsi che sono scoppiati contro i licenziamenti o chiusure di fabbrica: alla EADS saccheggiata dai suoi responsabili "iniziati" altolocati mentre la ditta licenzia a migliaia, alla Alcatel che sta annunciando di nuovo migliaia di licenziamenti, e in molte altre aziende meno conosciute ma spesso anche filiali di grandi trust mondiali. Presso tutti quelli che sono di fronte alla minaccia di licenziamenti, qualunque settore entrando in lotta potrebbe trovare non soltanto dei sostegni ma degli alleati, incoraggiati ad entrare in lotta a loro volta perché si sentirebbero meno soli. A condizione ovviamente che i primi a cominciare la battaglia sappiano evidenziare i nessi tra questa battaglia e la lotta contro tutti gli altri aspetti della politica di Sarkozy e del padronato.

E' la situazione che esige, naturalmente, una risposta d'insieme. Ciò che faranno e fino a che punto andranno le direzioni sindacali, è ancora imprevedibile. L'elemento nuovo di queste ultime settimane -quello che le spinge in avanti loro malgrado- è la determinazione a lottare dei ferrovieri e di alcuni altri. I militanti rivoluzionari devono dedicare tutta la loro energia a fare sì che la volontà di lottare non sia ancora sviata nei vicoli ciechi "particolaristi" o categoriali che certamente attraggono molti lavoratori ma sono innanzitutto privilegiati dalle direzioni sindacali. In particolare dobbiamo combattere questa falsa idea per cui ci sarebbero meno possibilità di vincere se si "annegano" le proprie rivendicazioni in quelle degli altri, cioè se ci si unisce ad altre iniziative.

E' probabile che andremo verso giornate d'azione sparpagliate, già annunciate per alcuni settori, contemporaneamente a scioperi "illimitati" nel tempo ma limitati ad alcune categorie. Bisogna che quelli che cominciano, da un lato collochino i loro propri obiettivi nell'ambito di obiettivi generali a tutti i lavoratori, d'altra parte si rivolgano attivamente verso gli altri, li incoraggino a seguirli. Il ricordo della solidarietà nella lotta che aveva unito nel 1995 ferrovieri, agenti dei trasporti parigini, insegnanti ed altri lavoratori del pubblico impiego, non è tanto lontano. Questa volta bisognerà trovare anche il contatto per l'azione comune col privato. Il ruolo dei rivoluzionari è quello di contribuire a fare sì che ogni movimento piccolo o grande vada fino in fondo alle sue possibilità, cioè colga anche le più piccole possibilità di raggruppare altri per la risposta comune.

Ma è anche il ruolo dei rivoluzionari contribuire all'oganizzazione dei lavoratori in lotta, in modo che questi si dotino di "strutture" decisionali proprie, indipendenti dalle direzioni sindacali anche se ovviamente includono nelle loro file i militanti sindacali, "assemblee generali" sovrane per settori e se possibile "inter- servizi", o addirittura "intercategoriali", comitati di sciopero o coordinamenti a tutti i livelli. E siccome questi nascono tanto più facilmente se sono preparati sin da oggi, in tutti i posti in cui lo possiamo si tratta di dare un impulso a comitati di mobilitazioni o "reti" raggruppando i lavoratori coscienti dei compiti da assolvere e desiderosi di prendervi parte, a prescindere della loro appartenenza o no, sindacale o politica. Le direzioni sindacali andranno avanti solo sotto la pressione dell'insieme degli scioperanti. E l'insieme degli scioperanti reagiranno correttemente alle svolte di queste ultime e eviteranno le trappole solo se saranno organizzati per andare fino in fondo alla loro determinazione.

A più lungo termine, e se effettivamente, come ce lo auguriamo, si sviluppa e si organizza una risposta collettiva dell'insieme della classe operaia contro Sarkozy e il suo governo e la classe capitalista, l'entrata in campo dei lavoratori sarà necessaria ad un ben altro livello. Ma il controllo necessario sul funzionamento delle imprese e della loro contabilità, sulla provenienza e l'ammontare dei loro benefici e investimenti, sulla destinazione e le condizioni di questi, ecc.... si potrà attuare o comunque si organizzerà tanto meglio quanto più, attraverso le lotte che avranno preparato la mobilitazione generale, i lavoratori avranno acquisito l'esperienza del controllo del proprio movimento, e cioè si saranno abituati all'esercizio del loro proprio potere.

2 novembre 2007

Esplorare la possibilità di un nuovo partito rivoluzionario

Testo proposto dalla frazione "L'Etincelle", votato dal 3% dei delegati presenti al congresso

La LCR propone di creare un nuovo partito. L'approccio è lo stesso di quello di LO dopo il successo elettorale di Arlette Laguiller alla presidenziale del 1995. Essa intende sfruttare il successo incontrato dalla candidatura di Olivier Besancenot sia in termini di voti che di dimostrazioni d'interesse per la sua persona, il suo programma e la sua politica. Di più, il discredito della sinistra, PS e PCF, è ancora cresciuto non solo tra i simpatizzanti della sinistra della sinistra ma anche tra i sostenitori di questi stessi partiti, portando alcuni a guardare verso l'estrema sinistra. Sembra quindi che un'opportunità almeno momentanea si stia aprendo per noi. La LCR, portata sul proscenio dalle elezioni, ha comunque ragione di proporre di verificarlo.

Se tale opportunità esiste, esiste per tutta l'estrema sinistra, di cui Besancenot è stato visto dagli elettori come il rappresentante, e non solo come quello della sola LCR. La posizione che egli ha conquistato, innegabile, così come la LCR, lo è stata a spese del resto dell'estrema sinistra solo dal punto di vista elettorale. Sul piano politico quotidiano, nelle imprese e nei quartieri, e soprattutto nelle lotte eventuali, l'importanza, l'impatto o l'influenza delle altre organizzazioni dell'estrema sinistra, tra cui LO, non sono diminuiti perché quelli della LCR sono cresciuti. La LCR sbaglierebbe se un certo trionfalismo la portasse a credere di poter giocare da sola, lo stesso errore che essa ed altri hanno potuto fare in altre occasioni in seguito ai propri successi.

LO avrebbe quindi interesse ad esaminare in quale modo potrebbe raccogliere l'iniziativa della LCR per fare avanzare gli interessi del movimento rivoluzionario e così contribuire a far fare un passo verso la costruzione del partito trotskista.

Certo, comunque, da questa iniziativa non sorgerà durante quest'anno il partito che riteniamo indispensabile per condurre la rivoluzione proletaria verso una società socialista: marxista, leninista, trotskista, erede politico di due secoli di battaglie dei comunisti rivoluzionari, dei loro successi, delle loro sconfitte e dei loro errori... e innanzi tutto capace di applicarne le lezioni alla situazione del mondo e della classe operaia in questo inizio di 21simo secolo. Potrebbe però costituirne una tappa.

Infatti è inconcepibile (a meno di respingerne la prospettiva all'infinito) che questo partito possa nascere da uno sviluppo lineare di uno dei gruppi attuali che si affermano trotskisti, fosse solo perché nessuno di loro ha le dimensioni, né il radicamento, né l'esperienza e quindi la competenza politica per essere da solo l'embrione di questo futuro partito. La sua costruzione (e la competenza dei suoi futuri dirigenti e militanti) passerà necessariamente attraverso delle tappe, cioè dei raggruppamenti con altri e la formazione di organizzazioni che si proclameranno trotskiste o meno, rivoluzionarie o meno, ma nelle quali i trotskisti potranno e dovranno portare la loro battaglia per convincere e conquistare al loro programma ed alla loro politica, (ovviamente a condizione che ne abbiano una), sia l'insieme del partito sia una buona parte dei militanti.

Questa è sempre stata la politica di quelli che si sono dedicati a costruire un partito comunista rivoluzionario, a cominciare da Marx, Lenin e Trotski. Col pretesto di difendere i loro insegnamenti, non bisognerebbe dimenticare ciò che ha fatto una gran parte della loro battaglia: la costruzione di un'organizzazione rivoluzionaria in cui si sono alternati i momenti di delimitazione intransigente e quelli delle alleanze e dei compromessi dei loro sostenitori con gente che non lo era. Marx raccomandò la creazione di una Prima Internazionale acchiappattutto o la costituzione di una socialdemocrazia che certamente non raggruppava solo dei marxisti, Trotski ha passato i suoi dieci ultimi anni di vita a tentare a più riprese di riavvicinare i suoi sostenitori ai centristi mezzo-riformisti o mezzo-stalinisti, arrivando addirittura a spingere i suoi fautori americani a difendere il progetto di un partito dei lavoratori che non si sarebbe nemmeno affermato rivoluzionario e sarebbe stato dominato, in effetti, almeno in partenza, da sindacalisti riformisti. Questo certamente non vuol dire che Marx, Lenin o Trtotski, avevano a quel momento perso di vista l'obiettivo da raggiungere, ma semplicemente che sapevano che costruire il partito impone di saper passare attraverso le svolte necessarie.

Ovviamente questo non vuole dire a contrario che tutte le svolte sono buone da prendere (così delle proposte di Trotski ai compagni americani, che da quel momento hanno fatto da giustificazione a molte derive opportuniste mentre erano state portate avanti in circostanze ben delimitate e precise). Dobbiamo raccogliere il progetto della LCR solo se offre l'opportunità per il movimento comunista rivoluzionario di fare un passo in avanti. Ma respingerlo o rifiutare di farne parte a priori per la ragione che il partito che propone di costruire non sarebbe il partito trotskista ideale, senza esaminare accuratamente e a quali condizioni potrebbe costituire una tappa della costruzione di questo, è per lo meno contrario agli insegnamenti sia di Trotski che di Marx a cui ci riferiamo.

In passato Lutte Ouvrière seppe capire e militare per le svolte necessarie. Quando nel giugno 1968 proponevamo la creazione di un partito all'insieme dei cosiddetti gruppi "gauchistes", PSU, compresi maoisti e libertari, non pensavamo ovviamente che questo partito potesse essere un partito trotskista. Eppure non avevamo abbandonato il nostro obiettivo. Ma pensavamo che l'opportunità esistesse perché tale partito avrebbe potuto attrarre giovani e lavoratori che si sentivano rivoluzionari ma che non sarebbero andati, e effettivamente non sono andati, nei gruppi esistenti. Questi giovani e questi lavoratori non erano certamente più marxisti né trotskisti di quelli che oggi la LCR ha l'ambizione di attrarre nel suo nuovo partito. Ma eravamo pronti ad aiutare a creare questo partito che si sarebbe accontentato di affermarsi rivoluzionario, o semplicemente "gauchiste", con l'obiettivo di poter, in seno a tale ambito, confrontarci e conquistarli politicamente.

Certamente il progetto della LCR è ancora confuso e ambiguo. Tra l'altro non lo nasconde, poiché si dà ancora quattro mesi per precisare quale partito vorrebbe, e almeno un anno di più per verificarne la fattibilità e crearlo. Anche se nel 1995 LO abbandonò il suo progetto molto più rapidamente, avevamo alllora agito nello stesso modo e non proponevamo di aderire al partito di Arlette sulla base del programma trotskista. Il fatto che tutto sia ancora aperto dal lato della LCR è una ragione per intervenire precisamente nel momento in cui la potremmo influenzare. Per questo, decidere in anticipo, e soprattutto senza considerare l'intervento militante che potrebbe essere il nostro, che il risultato finale non potrebbe essere che un nuovo PSU, è un errore. Senza parlare dell'illogicità che c'è a rallegrarsi e trovare positiva in anticipo la formazione di tale partito... pur rifiutandosi a partecipare alla sua creazione (si può immaginare Trotski che difende la creazione di un partito dei lavoratori americani, pur raccomandando ai suoi fautori di mantenersi accuratamente in disparte?)

Certamente la possibilità che questa impresa porti ad un nuovo PSU fa parte delle opzioni esistenti. Ma è un'opzione da combattere. Perché un nuovo PSU oggi sarebbe semplicemente la sinistra della sinistra unificata, raggruppando tutto o parte degli altromondisti, degli ecologisti, dei Verdi, del PCF, o del PS, cioè un partito riformista dalle pretese radicali, destinato a reintegrare la sinistra istituzionale e governativa a più o meno lungo termine, come tutti i partiti simili nel mondo hanno sempre fatto, compreso quando c'erano dei rivoluzionari tra i loro iniziatori. La maggioranza della LCR dice che non lo vuole, insistendo sul fatto che non ha interlocutori tra quelle correnti, come lo dimostra la sua rottura con esse in occasione della presidenziale. Effettivamente i militanti rivoluzionari vi annegherebbero, come prima di loro generazioni di trotskisti sono annegate in avventure simili. Il nostro atteggiamento non deve certamente essere di augurarci che riesca in questa via pur evitando accuratamente di partecipare, bensì di partecipare per mantenere o portare l'impresa sulla via rivoluzionaria.

LO deve quindi rispondere positivamente alla LCR. Affermarci pubblicamente come un interlocutore (se essa lo vuole, ma le sarà difficile rifiutare se ci dichiareremo apertamente e direttamente, anziché attenerci alle dichiarazioni tranquillizzanti di attenzione benevola), ma come un interlocutore comunista rivoluzionario, segnerebbe chiaramente il carattere politico dell'impresa. Manifestare una volontà comune delle due principali organizzazioni affermerebbe, ancora meglio del programma o del titolo dell'eventuale nuovo partito, il suo ancoraggio nel campo dei rivoluzionari. Selezionerebbe senz'altro quelli che ci verrebbero, e questo basterebbe sicuramente ad allontanare le correnti della sinistra della sinistra che non vogliono definirsi chiaramente rivoluzionari, senza allontanare i lavoratori o i giovani, che forse sono per prima cosa altromondisti, ecologisti, guevaristi, internazionalisti, femministi, o perfino si affermano del PCF... ma non hanno alcuna reticenza a riconoscersi anche rivoluzionari, e lo hanno dimostrato col votare per un candidato che appartiene ad un'organizzazione comunista rivoluzionaria. Sono questi che i trotskisti devono trovare il modo di attrarre, educare ed organizzare politicamente.

Sulla base di questa risposta positiva, dobbiamo proporre di cominciare la discussione a tutti i livelli, a partire da quello delle direzioni, con i suoi militanti e su tutti gli argomenti che possono riguardare la creazione di un nuovo partito. Dobbiamo proporre di partecipare attivamente e discutere fraternamente, affermando la nostra volontà di prendere parte alla costruzione di una nuova organizzazione che si potrebbe rivelare fattibile, alle riunioni che essa si propone di organizzare attraverso il paese al livello delle località o delle imprese, e non soltanto come osservatore. E dobbiamo proporre anche a tutti i livelli, e in ogni occasione che i rivoluzionari potranno avere, di intervenire nella lotta di classe, di dibattere della politica che converrebbe difendere, per le elezioni ma, innanzitutto, non soltanto per le elezioni. Perché un partito è un programma a lungo termine ma anche una politica immediata, ed è necessario che quelli che lo compongono, vecchi o nuovi, si ritrovino intorno ad alcuni orientamenti essenziali nelle lotte.

Nessuno può giurare che si può arrivare a colpo sicuro a questo nuovo partito. Gli ostacoli sia politici che organizzativi sono numerosi. La LCR stessa è più cauta. Ma l'atteggiamento che proponiamo qui è l'unico che possa permettere di verificare l'ipotesi che essa ha formulato, per cui oggi in questo paese ci sarebbe posto per un partito d'estrema sinistra dalle dimensioni nettamente superiori ai gruppi attuali, e di fare in modo che questo partito, se nasce, non sia una nuova versione della sinistra della sinistra ma un'avanzata del movimento rivoluzionario. Astenersi, da parte di LO, che lo si voglia o no, equivarrebbe a scommettere sul fatto che la LCR da sola non può che fallire o andare alla deriva sempre più lontano dal movimento comunista rivoluzionario. Sarebbe in qualche modo la politica del tanto peggio, tanto meglio, perché questo scacco o questa deriva non sarebbero nefasti soltanto per la LCR, bensì per tutto il movimento trotskista.

28 ottobre 2007

Comunali 2008

: l'occasione di una campagna politica dei rivoluzionari
Testo proposto dalla frazione "L'Etincelle", votato dal 3% dei delegati presenti al congresso

Le prossime comunali saranno come al solito il terreno di confronto dei partiti e più precisamente della sinistra contro la destra. Meno di un anno dopo le precedenti elezioni presidenziali, queste comunali potrebbero apparire più che al solito come il terzo turno del confronto elettorale cominciato con l'elezione di Sarkozy.

La sinistra, il PS e i suoi alleati PCF o Verdi, può in effetti sperare di prendere una rivincita. Per questo presenterà l'elezione come l'occasione di sconfessare la politica antipopolare e antioperaia di Sarkozy e del suo governo. Nello stesso percorso questo le permetterà di incentrare sul terreno delle urne l'attenzione di tutti quelli che oggi odiano questa politica e, in effetti, vorrebbero opporvisi. E così farebbe dimenticare che non ha nessun intento di contribuire a promuovere ed organizzare le lotte, unico modo di opporsi efficacemente alla politica della destra e del padronato. Fare dimenticare anche che, se non manca di critiche rispetto al metodo di Sarkozy, è solo per accettarne implicitamente gli obiettivi. Questo è particolarmente vero per il Partito Socialista le cui posizioni puntano quasi apertamente nella stessa direzione della riforma sarkoziana, sia in materia di pensioni (da riformare), di sistema sanitario (da razionalizzare), di durata del tempo di lavoro (da modulare), di risparmi nei servizi pubblici (da ricercare, anche con soppressioni di posti di lavoro), o addirittura di licenziamenti nel privato (da deplorare... ma concorrenza mondiale fa obbligo !). Ma questo è anche vero per i suoi alleati, PCF in testa, i cui rilanci a sinistra, quando si esprimono, non hanno altro obiettivo che di preparare una nuova alleanza con il PS.

Ma le comunali sono anche il terreno in cui si sviluppano le ambizioni dei notabili che in Francia cominciano, mantengono o rafforzano la loro carriera politica coll'occupazione di un posto di sindaco. L'insistenza sui problemi locali, reali o esagerati, permette in una volta di fare confusione sulla loro vera politica e di dare una giustificazione a tutti i compromessi e a tutte le combinazioni. Questo è vero a destra come a sinistra. Questo spiega l'attenzione di cui i centristi, pronti a vendere il loro sostegno a chi lo pagherà più caro, sono oggetto oggi da parte dell'UMP come da parte del PS. Questo spiega la politica del PCF che, dopo aver perso nel 2001 un terzo delle città di più di 20 000 abitanti (controlla adesso solo 38 municipi invece di 55) fa di tutto per ricercare in una volta l'alleanza del PS, assolutamente indispensabile, e quella dell'estrema sinistra in grado di rafforzare la sua posizione... nei confronti del PS appunto.

Tutte queste manovre fanno sì che prima di considerare la possibilità di alleanze e di liste comuni, è necessario per i rivoluzionari e per LO di definire l'asse politico sul quale intendono presentarsi e fare campagna. Quello che sembra imporsi riguarda la difesa intransigente degli interessi del campo dei lavoratori, sia su scala locale che nazionale. Certamente non è oggi che, mentre le combinazioni politiche stanno per toccare punti massimi, bisogna abbandonare il nostro asse che abbiamo ripetuto tanto spesso in uno slogan ora legato alla persona di Arlette Laguiller.

Nelle circostanze attuali, scegliere il campo dei lavoratori significa prendere posizione anzitutto sui problemi generali, dalla cui risoluzione dipende la sorte delle classi popolari, ben più comunque che dalle soluzioni locali che potrebbero derivare dalla migliore buona volontà dei comuni: denunciare i misfatti della squadra di destra attualmente al potere sotto la direzione di Sarkozy, ma anche la passività o la vigliaccheria di quelle di sinistra che vorrebbero assumere questo stesso ruolo; fare propaganda per un programma di misure radicali che potrebbero e dovrebbero essere gli obiettivi della necessaria e indispensabile lotta d'insieme dei lavoratori.

In quanto ai problemi locali, che ovviamente sarebbe stupido trascurare, essi implicano l'impegno dei nostri candidati, così come dei nostri eventuali eletti, ad essere accanto a tutti gli sfruttati e gli oppressi, in ogni occasione, per difendere ogni rivendicazione che potrebbe corrispondere al loro interesse, affermare i loro diritti, imporre questi diritti e soprattutto aiutarli a difendersi, senza tener conto di eventuali alleanze avvenute in qualche occasione, come nelle elezioni o in altri casi. Senza tener conto neanche dell'eventuale messa a rischio di posizioni, nel consiglio comunale o altrove, che può essere giustificato occupare solo per portare avanti questa politica di difesa intransigente degli interessi del campo dei lavoratori.

Non si tratta di rifiutare dei posti eletti, se sono conquistati su queste basi chiare. Non si tratta di rifiutare eventuali alleanze, se non oscurano la nostra campagna o le nostre posizioni e non ci porteranno, prima o poi, a compromessi inaccettabili. Ma non si tratta certamente neanche di accettare qualunque alleanza per l'unica ragione che ci garantirebbe più sicuramente degli eletti. Così nella maggior parte dei comuni un po'importanti (nei piccoli la questione non si pone affatto nello stesso modo) dove il primo della lista di sinistra (ed eventuale futuro sindaco) è una personalità politica conosciuta, sindaco uscente, deputato-sindaco, ex ministro, quindi un sostegno conosciuto ed affermato alla politica del PS o del PCF, la partecipazione sin dal primo turno a questa lista sembra assolutamente da escludere. Infatti non potrebbe apparire che come un'alleanza politica con la sinistra, e quindi un sostegno alla sua politica.

Anche i cosiddetti accordi "tecnici" al secondo turno, che possono più facilmente essere giustificati e spiegati dalla legge elettorale ben poco democratica, vanno presi con le molle. Che lo si voglia o no, ne rimarrà più o meno confusamente l'idea che, per un posto di eletto, siamo pronti ad abbandonare la nostra indipendenza politica, cioè la nostra totale libertà di critica. Senza parlare ovviamente di quanto sarebbe compromettente la partecipazione ad una lista condotta da una donna o un uomo la cui politica comunale non è al servizio dei ceti più popolari. E' il caso della maggior parte dei sindaci del PS e di gran parte di quelli del PCF oggi (esempio: questi sindaci della vicina periferia parigina che mirano a trasformare socialmente il loro comune per farne un'agglomerazione piccolo-borghese e per questo spingono, discretamente o meno, i poveri e gli immigrati verso orizzonti più lontani e se la prendono con gli squatter o gli inquilini che non possono più pagare; non solo il sindaco di Parigi Delanoë nasconde i suoi obiettivi sotto ragioni di rinnovamento urbano).

Infatti la prima alleanza da ricercare è quella dell'estrema sinistra, e in particolare della LCR. Ricordiamo che questa alleanza non ha funzionato nel 2001 perché la LCR pensava ad una fusione delle liste o ad un voto per la sinistra al secondo turno, cosa che allora rifiutavamo. La seconda ragione dello scacco delle discussioni fu che essa intendeva dare più spazio ai problemi locali a scapito dei problemi nazionali generali e voleva introdurre nelle liste comuni gente che non era né di LO né della LCR, in particolare membri di associazioni... che fra l'altro erano molto più a sinistra della maggior parte dei sindaci odierni delle grandi città PS o PCF. Adesso è evidente che niente si opporrebbe a candidare, in liste formate su una base LO-LCR, gente d'estrema sinistra o anche della sinistra della sinistra che accetterebbe le grandi linee della piattaforma.

Certamente possono esistere altre difficoltà. La LCR, forte dei suoi recenti successi elettorali, può stimare che non ha più bisogno di LO o essere pronta qua o là a negoziare da parte sua con questo o quel notabile di sinistra che fa il conto dei voti e con quelli per cui la conquista del municipio val bene una messa, soprattutto se si tratta di raccogliere il sostegno di un'organizzazione d'estrema sinistra che ha il vento in poppa. La LCR dice oggi, e in modo molto più chiaro che sinora non lo ha fatto, che non è disposta a questo tipo di alleanza. Il miglior modo di ancorarla su questa posizione è di proporle la nostra alleanza... a condizione certamente di non ricercarne noi stessi di più dubbie.

L'intervento sul terreno elettorale non è certamente la priorità dei rivoluzionari. Soprattutto nelle circostanze attuali, in cui i lavoratori sono attaccati da tutte le parti, questa priorità consiste nell'aiutarli a rispondere e a far convergere le lotte in un movimento d'insieme. Ma poiché c'è una campagna elettorale e poiché questa fa parte delle battaglie politiche necessarie, dobbiamo fare in modo che essa aiuti il nostro intervento sul terreno essenziale delle lotte di classe.

28 ottobre 2007