La crisi economica

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Da "Lutte de Classe n°17 (La crisi economica)
Gennaio-febbraio 1996

A prima vista, si potrebbe considerare che non ci sia stato un cambiamento maggiore nella situazione economica nel corso di questi ultimi anni. L'economia non è uscita da questo lungo periodo di circa un quarto di secolo in cui le fluttuazioni tra momenti di recessione e ripresa limitata si sviluppano su una base di stagnazione o di crescita debole della produzione. Non vi è stato neanche un degrado catastrofico.

La permanenza e la durata del degrado della situazione economica mondiale ha come manifestazione più tangibile l'aggravarsi generale della disoccupazione con, nei paesi imperialisti più ricchi, l'abbassamento del livello di vita della classe operaia, la demolizione dello stato sociale, l'arretramento dei servizi pubblici l'estensione rapida della povertà. L'accrescimento dell'indebitamento degli Stati alimenta un settore finanziario che non cessa di gonfiarsi e strozza letteralmente l'economia materiale.

Due ragioni fondamentali e complementari sono state all'origine dello sviluppo ipertrofico della finanza. Da un lato, una massa crescente di capitali si distoglievano dalla produzione che non rendeva più un tasso di profitto sufficiente a causa della crisi, cercando altri campi di impiego per alimentare l'offerta. D'altro canto, i bisogni di finanziamenti crescenti degli Stati alimentavano sempre più la domanda.

Le spese degli Stati hanno giocato, all'inizio della crisi, un ruolo maggiore per permettere alla classe capitalista di supplire a un mercato debole. Gli stessi Stati più poveri hanno dovuto partecipare alla corsa alla spesa sotto l'aggressione della caduta delle esportazioni che li mantenevano in vita. Essi hanno dovuto fin dall'inizio spendere a credito.

Ma le finanze pubbliche hanno finito per diventare debitrici quasi dappertutto, anche nei paesi imperialisti più ricchi che dovettero ricorrere sempre più massicciamente ai prestiti ed indebitarsi. Da vent'anni il principale sostegno dell'economia è l'indebitamento.

Ciò che era stato, in effetti, la conseguenza del marasma dell'economia ne è diventato con l'andare del tempo una delle principali cause. Una evoluzione divergente si è prodotta tra le attività finanziarie che raccolgono masse crescenti di capitale e l'attività produttiva che non si sviluppa più, anche se il tasso di profitto precedente la crisi è stato ristabilito e superato.

Il marasma dell'economia produttiva appare in tutte le cifre un pò significative delle statistiche ufficiali. Queste cifre non hanno per se stesse, ricordiamolo, che un valore molto approssimativo : tenendo conto dell'oggettività tutta relativa delle statistiche sulla disoccupazione, per esempio, si può immaginare cosa valgono le cifre su insiemi più astratti come il Prodotto Interno Lordo (PIL) destinato a rappresentare la produzione. La loro evoluzione è tuttavia significativa. in 20 anni di crisi, il tasso medio della disoccupazione si è moltiplicato per due nell'insieme dei paesi industrializzati (per 4 in Francia).

La crescita economica media è rallentata. Quanto agli investimenti produttivi, al di là delle loro fluttuazioni, essi non hanno mai ritrovato il loro livello di prima del 1970.

" Aiutare le imprese a investire", questo era il leit-motiv di quasi tutti i governi tra il 1974- inizio della prima grave recessione produttiva- e, diciamo, la metà degli anni ottanta. La quantità di soldi distribuiti dagli Stati su questo terreno ha fatto un balzo in avanti, ma non gli investimenti. In Francia ad esempio, tra il 1981 e il 1984, in quattro anni, l'insieme degli "aiuti per gli investimenti" si è duplicato ma i tassi di investimenti medi delle imprese sono diminuiti.

I capitalisti, non credendo ad una nuovo rilancio dei mercati dei beni materiali, non avevano nessuna voglia di scommettere sugli investimenti e hanno cercato di ritrovare i loro tassi di profitto del passato con altri mezzi. La generosità finanziaria dello Stato gli è servita solamente a completare i loro profitti. In Francia, e più in generale nei paesi che dispongono di un forte settore nazionalizzato, l'essenziale degli investimenti produttivi in questa prima fase della crisi è stato fatto dalle aziende statali.

Oggi, questa fase è passata. Indebitati fino al collo, con deficit di bilancio in continua crescita, gli Stati, per tentare di equilibrare i loro bilanci, vendono o liquidano le aziende nazionalizzate che gli avevano permesso di compensare in una certa misura il cedimento capitalistico privato in materia di investimenti.

Gli investimenti dello Stato per tentare di correggere le leggi del mercato in favore dei capitalisti hanno per contropartita i deficit crescenti dei bilanci degli Stati, i prestiti sempre più massicci per coprire questo deficit. L'indebitamento degli Stati, delle collettività e degli organismi parastatali è diventato dappertutto astronomico. Quello dei paesi poveri ha fatto dei versamenti di interessi crescenti il principale mezzo di saccheggio di questi paesi da parte del grande capitale imperialista. Quello degli Stati dei paesi imperialisti è diventato il principale veicolo della dominazione del capitale finanziario sul capitale produttivo. Nel 1995 il debito pubblico dei sette paesi imperialisti più ricchi (il G7) rappresenta il 72% del loro prodotto interno, quasi il doppio in percentuale di ciò che era 15 anni prima.

L'indebitamento si alimenta d'ora in avanti da solo. Per rimborsare i loro debiti, gli Stati e le collettività dei paesi industrializzati fanno nuovi prestiti. Il solo carico del debito -interessi e rimborsi- assorbe dappertutto una parte importante delle finanze di Stato ed è diventato in molti paesi la principale voce del bilancio.

La soppressione progressiva o brutale degli ostacoli che gli Stati opponevano prima alla libera circolazione del capitale per proteggere i loro capitalisti nazionali, è risultata certamente dalla pressione delle grandi industrie internazionali, desiderose di disporre e investire liberamente i loro capitali a livello mondiale, ma altrettanto, se non di più, dai bisogni di finanziamenti degli Stati stessi ed in primo luogo degli USA. Per attirare a se capitali, ognuno cerca di rendere il proprio sistema finanziario il più attivo possibile. Le aziende, e perfino i privati miliardari, hanno raggiunto le banche e gli organismi finanziari per giocare con circa 200 prodotti finanziari di cui alcuni non hanno più che un rapporto molto lontano e del tutto indiretto con l'economia reale.

Ma sono gli Stati, e le loro diverse forme di indebitamento, (prestiti di ogni sorta, buoni del tesoro ecc...) che forniscono l'essenziale della "materia prima" della finanza. Nel 1993 ad esempio i due terzi della quantità mondiali di azioni, di obbligazioni, di titoli di credito diversi, che i loro possessori spostano, si scambiano e costituscono, con le monete, il principale supporto della speculazione, erano le credenziali sugli Stati.

Questa crescita dell'insieme dei prodotti finanziari è alimentata tuttavia, in ultima analisi, dal profitto avutosi nelle aziende, cioè il plusvalore estorto alla classe operaia. Il raddrizzamento dei tassi di profitto, al livello di prima della crisi e oltre, non può derivare dal settore finanziario, anche se fatto a profitto di quest'ultimo. La nuova era della crescita del profitto, che marca la seconda fase della crisi, si è aperta malgrado una produzione stagnante o una crescita molto debole, con la riduzione considerevole della massa salariale (salari diretti e indiretti); con un certo aumento della produttività, sia per l'intensificazione del lavoro e sia per investimenti orientati molto meno verso l'aumento della produzione - come nel caso di un mercato in espansione - che verso l'economia bruta della manodopera. Il ristabilimento del tasso di profitto è diventato un mezzo per una diminuzione considerevole della parte operaia nei redditi nazionali di tutti i paesi. Questi grandi profitti forniti dalla produzione, vi ritornano tuttavia, molto meno che prima della crisi.

Lo sgonfiamento brutale della speculazione immobiliare ha preoccupato non solo le grandi banche o le assicurazioni, ma anche molte grandi aziende industriali che si aspettavano più redditività dalla speculazione sulle loro disponibilità finanziarie che dai loro investimenti. I servizi finanziari delle grandi imprese si sono trasformati in banche vere e proprie, speculando sui mercati dei cambi, comprando e vendendo titoli di Stato, e guadagnando più con queste iniziative che con le loro attività produttive. E alcune aziende hanno addirittura abbandonato ogni attività produttiva per darsi alla speculazione.

Il risultato globale di tutto ciò è che nel 1989, la parte dedicata alla finanza rappresentava, nell'utilizzo delle risorse disponibili delle aziende, la stessa percentuale degli investimenti. Dieci anni prima la parte dedicata agli investimenti "produttivi" era ancora sette volte maggiore. La rapidità di questa evoluzione lascia immaginare che oggi, sei anni dopo, gli investimenti finanziari assorbiscono la maggior parte delle risorse finanziarie delle aziende.

Il dominio della finanza sull'industria, e le esplosioni periodiche della finanza a causa della speculazione, sono vecchie quanto l'imperialismo. Ma, da qualche anno, tutto ciò assume un'importanza senza precedenti. Il grande capitale vive sempre più degli interessi prelevati sui suoi prestiti usurai, principalmente agli Stati, senza dover affrontare i rischi del mercato. Nell'era del "capitalismo liberale" trionfante, il grande capitale diventa sempre più parassita: gli Stati lo scaricano dai rischi produttivi e finanziano i suoi profitti, facendoli pagare direttamente all'insieme della popolazione.

A livello mondiale la necessità di pagare gli interessi del debito spinge gli Stati a svendere le loro proprietà, privatizzando le industrie pubbliche. Lo statalismo non è certo mai stato altro, nell'economia capitalista, che una "stampella del capitale". Solo gli stalinisti pretendevano di vedere, nei paesi sviluppati, degli elementi di socialismo -e i nazionalisti dei paesi poveri un mezzo per completare i ritardi della loro economia in rapporto ai paesi imperialisti. Lo statalismo era in realtà destinato soprattutto a farsi carico degli investimenti, nei settori non redditizi ma tuttavia necessari per permettere alle aziende private di funzionare in rapporto al profitto.

Molti paesi sottosviluppati e non solo quelli che certuni qualificavano all'epoca per socialisti, hanno cercato di uscire fuori o di proteggersi da un influenza eccessiva dell'imperialismo attraverso l'organizzazione di un settore nazionalizzato più o meno importante. La vendita delle aziende pubbliche si traduce o si tradurrà necessariamente in una deindustrializzazione, poichè i capitali privati, per mantenere o sviluppare una produzione. conserveranno solo ciò che è redditizio -e forse neanche questo.

Ciò è vero, anche, per i paesi imperialisti più sviluppati. Vendendo le aziende nazionalizzate, e privatizzando pezzi interi di servizi pubblici, gli Stati abbandonano i mezzi di cui dispongono per giocare un certo ruolo di regolamentazione dell'economia capitalista, lasciando in questo modo il campo libero al mercato cieco e stupido. Ciò non significa che lo Stato cessi di intervenire nell'economia per aiutare i capitalisti. Ma questo aiuto non ha come contropartita un minimo di controllo. Lo Stato sostiene sempre meno il sistema capitalista, completando con le sue commesse le insufficienze di un mercato stagnante o facendosi carico di una parte più o meno grande delle spese produttive: esso si accontenta di sovvenzionare direttamente i profitti. L'evoluzione della forma dell'intervento di Stato in Francia è significativo a questo riguardo. Mentre nel primo periodo della crisi, l'aiuto al padronato prendeva principalmente la forma di un intervento diretto dello Stato nella spesa di investimenti e di ricerca, o nelle spese che facilitavano l'immissione dei prodotti nei mercati di esportazione, da più anni, sono dei regali veri e propri destinati ad accrescere le ricchezze delle aziende ed aumentare le loro disponibilità finanziarie, senza l'ombra di una contropartita, ben sapendo che queste disponibilità finanziarie accresciute andranno a rafforzare la massa dei capitali speculativi.

Allo stesso modo è sempre meno attraverso i servizi pubblici che lo Stato sostiene il capitale privato. In tutti i paesi imperialisti, la tendenza è al contrario a ridurre i servizi pubblici, vendendo ai privati i pezzi più redditizi, esattamente come le imprese nazionalizzate dei settori concorrenziali, e devolvendo sempre meno soldi dello Stato a ciò che resta.

La differenza tra i servizi pubblici e i settori concorrenziali tende così all'estinzione. Tutto deve diventare concorrenziale, e chi non lo è, è destinato a morire. La Società Nazionale delle Ferrovie in Francia (SNCF), dopo Air-Inter (linee aeree interne) e anche altre, deve diventare redditizia, mentre essa non solo ha il compito di costruirsi tutte le infrastrutture -contrariamente al trasporto stradale- ma deve mettere anche le proprie infrastrutture a disposizione delle aziende private (carrozze-letti, ristoranti ecc..). Anche le strutture ospedaliere sono sottoposte alle stesse pressioni.

I servizi pubblici investono sempre meno, o addirittura disinvestono. E tutto ciò rappresenta uno arretramento considerevole sul piano sociale, e diventa un fatto aggravante del marasma economico e della disoccupazione.

La messa in discussione, universale, delle protezioni sociali dove esse esistevano, è un aspetto particolarmente grave di questa evoluzione. La ricerca di una "redditività" della protezione sociale, della pensione, della sanità, e in molti paesi dell'educazione, ha delle conseguenze catastrofiche per gli strati più poveri.

Soltanto due anni fa, per illustrare l'importanza assunta dal settore finanziario e borsistico, noi avevamo citato il fatto che il volume di danaro destinato alle operazioni finanziarie nelle transazioni internazionali, era cinquanta volte più grande del volume di moneta destinato alla circolazione delle merci. Due anni dopo, il rapporto è di uno a ottanta! Ma un funzionamento, il cui motore è il profitto usuraio, non può durare eternamente. Tutti i profitti, anche quelli finanziari, vengono in ultima analisi dal plusvalore preso dalla produzione. Affossando la produzione, la finanza prepara la rovina di tutta l'economia.

L'ipertrofia delle attività finanziarie rende l'economia mondiale soggetta a dei soprassalti imprevedibili. Gli anni 1994-95 sono stati segnati da una successione di crisi : crac sulle obbligazioni all'inizio del '94; nuovo crac dell'economia messicana, caduta del dollaro, attacchi successivi contro più monete europee tra cui il franco, fallimenti virtuali di parecchie banche - non solo il Crédit Lyonnais o la banca inglese Barings- a causa delle perdite in attività speculative immobiliari o monetarie. Queste differenti crisi non erano tutte legate le une con le altre, ma tutte riflettono l'instabilità crescente dell'economia.

Le ricchezze dello Stato sono infime in rapporto alla massa di capitali suscettibili di muoversi nella speranza di incassare un beneficio dalla svalutazione o la rivalutazione di una moneta. Nel 1984, le riserve valutarie accumulate nelle banche centrali dei sette paesi più ricchi del mondo, rappresentavano poco più che l'ammontare di ciò che si scambiava in una sola giornata sul mercato dei cambi! Nel 1994, dieci anni dopo, il rapporto era di uno a sette... in disfavore delle banche centrali. In altri termini, le banche centrali, anche se associate, non hanno alcun mezzo per fermare un movimento speculativo contro una moneta. Esse non possono che pagare, e pagano i benefici di chi specula con successo.

Molti operatori finanziari, i fondi pensionistici privati le cui disponibilità finanziarie fanno a gara con quelle degli Stati, le agenzie specializzate nelle speculazioni monetarie, che drenano non solo i loro soldi ma che agiscono per conto dei grandi gruppi, insieme a molte di queste imprese stesse, hanno danaro a suficienza per speculare a colpo sicuro, cioè spingere coi loro soli interventi, una moneta verso la savlutazione o la e rivalutazione.

La "mondializzazione" del mercato monetario è spinta fino in fondo. Ma è l'esistenza stessa delle monete nazionali che fa delle operazioni di cambio una delle più importanti fonti del profitto finanziario. Questa contraddizione e l'incapacità dell'economia capitalista ad avere una moneta internazionale che beneficia della fiducia dell'insieme del mondo capitalista, aggrava la fragilità del sistema e costituisce un freno alla circolazione internazionale dei prodotti, e quindi alla produzione.

Lo stesso accade per questa "mondializzazione" dell'economia che sarebbe stat consacrata da accordi commerciali internazionali come quelli che sono sfociati nella creazione dell'organizzazione mondiale del commercio, in vigore dall'inizio del 1995.

L'economia è internazionale e soffoca da molto tempo nei quadri nazionali che, da parte loro, si mantengono. Ma gli accordi e le regole internazionali non guardano alla razionalità produttiva e alla sua spartizione a livello mondiale. Essi non fanno che conscrare la fine delle "aree protette" delle potenze imperialiste di secondo ordine - di cui alcune barriere protettive sono sopravvissute alla fine della dominazione coloniale- e la fine del relativo isolamento dei paesi dell'ex blocco sovietico rispetto al mercato mondiale - facendo sì che ne approfittino i più forti imperialisti soprattutto gli USA.

Questi organismi consacrano con gli accordi i rapporti di forza esistenti. Essi sono incapaci, contrariamente a ciò che essi pretendono, di proteggere i paesi vittime di un mercato così organizzato, paesi che sono spinti nell'abisso.

Anche se mantiene la forma che le è propria da 20 anni e riesce ad evitare una crisi brutale come quella del '29 -il chè certamente non è sicuro nel futuro-, la crisi presente dell'economia capitalista rappresenta già un considerevole arretramento per la società. Arretramento consistente anche nei paesi più ricchi d'Europa, USA o Giappone dove le condizioni di vita di molte decine di millioni di persone sono già riportate al livello delle condizioni dei paesi poveri. Arretramento nei paesi dell'Europa dell'Est - dove i lavoratori sono stati liberati da regimi dittatoriali, ma per essere spogliati dalle protezioni sociali e spinti verso la disoccupazione. Arretramento che si verifica anche nei paesi poveri in cui la povertà era pure tanto bassa che era difficile immaginare un ulteriore degrado.

Anche nei suoi periodi di espansione, il capitalismo non fa che sviluppare l'economia in modo irrazionale, inadatto ai bisogni reali, aggravando le ineguaglianze tra la borghesia e le classi lavoratrici, come tra i paesi imperialisti e i paesi poveri. Ma da molti anni il capitalismo non sviluppa più l'economia, neanche in questo modo, esso la sta rovinando.

Se l'economia di mercato non è un fallimento, allora cosa siginifica la parola fallimento?. La sua sostituzione con un altro sistema economico e sociale, basato sulla soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e l'organizzazione della produzione e della sua ripartizione in funzione dei bisogni e non dei profitti, la pianificazione a livello locale, regionale, internazionale sotto il controllo della società, costituisce a tutt'oggi il compito più importante della nostra epoca. Il nostro programma fondamentale non ha cambiato da quando Marx l'ha formulato o da quando il proletariato russo ha tentato di realizzarlo concretamente. La sfasatura è diventata solo più grande, più importante tra le immense possibilità dell'umanità di "dare a ciascuno secondo i suoi bisogni" a livello mondiale e il formidabile disordine con il quale il capitalismo dilapida questa possibilità e la rivolge contro la società.