La Cina nella nuova divisione dell'Africa

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28 marzo 2025

Da "Lutte de classe" n°247 - Aprile 2025

Con espressioni come "Cinafrica" e "Africa, il secondo continente cinese", i commentatori dipingono la Cina come la nuova potenza dominante del continente. Essi sottolineano la presenza di quasi un milione di lavoratori cinesi, siano essi manager, tecnici o operai, nonché l'entità delle esportazioni di manufatti, delle opere infrastrutturali e delle operazioni minerarie e petrolifere in cui la Cina è coinvolta in Africa. Ma se la sua presenza nel continente è reale, dipingerla come un nuovo imperialismo è solo propaganda. In un momento in cui la presenza della Francia quale imperialismo di secondo piano sta regredendo, l'immagine di una Cina conquistatrice è destinata a serrare i ranghi dietro lo Stato francese. Sempre pronto a dare lezioni, Macron lo ha detto meglio a N'Djamena nel 2021 quando ha dichiarato: "Non ha senso ristrutturare i debiti africani verso l'Europa e gli Stati Uniti se questo significa dare contratti alla Cina". Gli Stati Uniti vedono la Cina come un rivale che minaccia la loro egemonia e che devono contenere, e la loro pressione su questo Paese sta aumentando ovunque, anche in Africa.

Le relazioni tra Cina e Africa risalgono a molto tempo fa. Senza risalire ai mercanti cinesi che si avventurarono sulla costa orientale del continente già nel XV secolo, la visita di Zhou Enlai, primo ministro di Mao, a diversi Paesi africani nel 1963 segnò l'inizio di una politica che avrebbe portato all'invio di tecnici agricoli e personale medico. Lo Stato cinese maoista, ancora isolato dall'imperialismo, pretendeva di rappresentare una via d'uscita dal sottosviluppo per i Paesi poveri. A volte furono realizzati grandi progetti, come la costruzione della ferrovia Tazara (Tanzania-Zambia) nel 1973. Almeno 15.000 lavoratori vennero dalla Cina per posare i 1.860 chilometri di binari che collegavano i giacimenti di rame della Zambia al porto di Dar-es-Salam in Tanzania.

Ma è solo negli anni Duemila che i legami economici tra Cina e Africa sono davvero decollati. Nel giro di vent'anni, gli scambi commerciali tra i due Paesi sono aumentati di trenta volte. Inizialmente, si trattava di esportazioni cinesi di beni a basso costo, oggetti di plastica di uso quotidiano come utensili, pentole, stivali, prodotti tessili, ecc. Nel settore tessile, furono soprattutto la Nigeria e il Ghana a soffrire di questa concorrenza.

Da diversi anni, le aziende cinesi esportano in Africa anche macchine agricole e veicoli - utilitarie, pullman, motociclette, camion e attrezzature per l'edilizia. Le filiali che vendono questi prodotti non sono necessariamente cinesi: ad Abidjan, questo mercato è presidiato da rivenditori libanesi o altri. Ma per molto tempo l'Africa francofona è stata un mercato protetto per aziende francesi come Peugeot, Renault o un predecessore, Berliet, che vi vendeva camion già durante l'era coloniale. Oggi, invece, c'è una vera e propria concorrenza tra i produttori: aziende cinesi come Foton e Sinotruck, tedesche come Daimler-Benz e italiane come Iveco.

Infrastrutture misere, ancora progettate per l'esportazione

In Africa, le aziende cinesi sono onnipresenti nel settore delle costruzioni e delle opere pubbliche. Ma nonostante la portata di alcune delle loro realizzazioni, le esigenze di base della popolazione non sono affatto soddisfatte. La produzione di elettricità in tutta l'Africa subsahariana è equivalente a quella della Spagna. Nel cuore del continente, gran parte dei trasporti si svolgono con mezzi rudimentali. Le poche ferrovie, ereditate dalla colonizzazione, sono fatiscenti e progettate solo per l'esportazione di materie prime.

Tra il 2006 e il 2017, la Cina è stata la prima a costruire infrastrutture in Africa, con quasi il 28% dei finanziamenti esterni, rispetto al 6% della Francia. La Cina ha ripristinato alcune linee ferroviarie: quella da Gibuti ad Addis Abeba, in Etiopia, e la linea di Tazara sarà presto ripristinata dalla società statale cinese CCECC. Il programma cinese delle Nuove vie della seta, lanciato nel 2013, riguarda la costa orientale dell'Africa. Sono state costruite infrastrutture di trasporto merci tra il Canale di Suez, Gibuti e i porti della costa orientale. In 21 dei 55 porti africani, quattro grandi compagnie statali cinesi operano in concorrenza con i giganti europei MSC e Maersk e con DP World, che appartiene all'Emirato di Dubai.

Alcuni leader africani hanno sostenuto che i contratti con la Cina, le sue banche e le sue aziende, porterebbero allo sviluppo economico. Per loro, firmare contratti con la Cina o la Russia, giocando la partita tra diversi concorrenti, è un tentativo di allentare la morsa dell'imperialismo. Il passato della Cina, dominata dagli imperialisti per un secolo - anche se non è stata formalmente colonizzata - le permette di affermare che con essa gli accordi economici sono interessanti per ambedue le parti. Ma nessun contratto è gratuito e gli Stati africani si sono indebitati per ripagare i prestiti che li finanziano che, il più delle volte, sono stati emessi da una delle due principali banche legate allo Stato cinese, la Exim Bank of China e la China Development Bank. A vent'anni dalla firma dei primi contratti, l'opera di facilitazione dell'esportazione delle materie prime africane verso la Cina è stata completata. Ma per quanto riguarda le infrastrutture vitali per la popolazione, i risultati sono modesti. Secondo il Ministero degli Affari Esteri cinese, in vent'anni sono state costruite 80 grandi centrali elettriche, 130 ospedali e 45 stadi per tutta l'Africa, oltre a 6.000 chilometri di ferrovie, da paragonare con i 28.000 km della rete ferroviaria di un Paese come la Francia. La Cina è responsabile di un quarto o un terzo dei lavori infrastrutturali in Africa, ma, malgrado ciò, il capitalismo continua a condannare il continente al sottosviluppo.

La Cina nel caos creato dall'imperialismo

La Cina è diventata uno dei principali interlocutori commerciali del continente: nel 2022 ha rappresentato il 16% delle importazioni africane, contro il 29% dell'Unione Europea. Ma divisoi e in competizione, ogni Paese europeo preso separatamente pesa meno della Cina da sola, facendone il primo interlocutore commerciale dell'Africa. Il continente rappresenta solo il 3% del commercio estero cinese, il che riflette la sua posizione nell'economia globale, nonostante vi stia vivendo il 18% della popolazione mondiale. D'altra parte, le importazioni cinesi dall'Africa sono consistenti. Si tratta quasi esclusivamente di materie prime, minerali, metalli, idrocarburi, legno, fibre tessili e altri prodotti agricoli. Dalla fine del XIX secolo, l'Africa è stata integrata nell'economia mondiale come fornitore di materie prime per le principali potenze industriali occidentali e con la Cina si è riproposto lo stesso tipo di legami economici.

Dopo i piani di aggiustamento strutturale degli anni '80 e '90, con cui il FMI e la Banca Mondiale hanno imposto violente misure di austerità agli Stati africani, le imprese occidentali hanno abbandonato un'area che ai loro occhi non era sufficientemente redditizia. La Cina, grazie al peso del suo Stato e delle sue aziende pubbliche, ha occupato questo spazio vuoto. Diventando un subappaltatore essenziale per i capitalisti occidentali, la Cina ha dovuto trovare le risorse necessarie per la sua industria. In Africa, ha stretto rapporti con diversi Stati per assicurarsi forniture di petrolio e minerali. Lo Stato cinese ha protetto le sue aziende, che hanno trovato attività economiche, sostenendo le infrastrutture necessarie per estrarre le materie prime di cui l'Africa abbonda. Investire in miniere in regioni isolate, costruire e mantenere impianti di raffinazione dei minerali, provvedere alle strade o linee ferroviarie, richiede investimenti considerevoli e rischiosi in Paesi politicamente instabili. Quindi molti capitalisti europei e americani preferiscono investire i loro capitali altrove. Quando i prezzi delle materie prime scendono, lo Stato cinese copre le perdite delle sue aziende, consentendo loro di sopravvivere e rimanere in attività, mentre i capitalisti occidentali preferiscono trovare mercati più redditizi.

Minerali: la corsa all'Africa

L'Africa abbonda di minerali essenziali per la moderna produzione elettronica, medica e militare come rame, cobalto, stagno, tungsteno, tantanio.. La loro estrazione è soggetta a una feroce concorrenza tra varie aziende, sia cinesi che occidentali. Nel caso del cobalto, a lungo leader, il gigante anglo-svizzero Glencore è stato recentemente detronizzato dalla società cinese CMOC (China Molybdenum Company Limited). Ma la posta in gioco non è così alta come sembra, perché il mercato di questo minerale per le batterie elettriche è ormai saturo a causa del rallentamento di quello automobilistico cinese e della crisi economica globale. Inoltre le case automobilistiche si stanno orientando maggiormente verso le batterie al litio-ferro-fosfato, senza cobalto. Dal 2022, il prezzo di quest'ultimo è sceso del 75%, spingendo il governo congolese a sospendere le esportazioni nel febbraio 2025. Spera che questo porti a un aumento dei prezzi, ma soprattutto dimostra la sua impotenza e la sua dipendenza dai mercati delle materie prime. Questi sono dominati dai grandi trust minerari, le anglo-australiane Rio Tinto e BHP Billiton, l'anglo-svizzera Glencore e la sudafricana Anglo-American.

Quando i prezzi sono alti, le materie prime arricchiscono i capitalisti che ne controllano l'estrazione, siano essi cinesi o stranieri. Ma quando scendono, il disastro si abbatte sui Paesi il cui reddito dipende dalle esportazioni di un numero limitato di risorse naturali. Ad esempio, sospendendo le esportazioni di cobalto, le autorità congolesi hanno fatto sprofondare nella miseria più assoluta migliaia di minatori artigianali, già sfruttati in modo scandaloso.

Alcuni commentatori chiamano questa calamità "maledizione delle materie prime", come se un dio stesse punendo i Paesi poveri per un presunto peccato. Ma questo saccheggio non è affatto dovuto a una maledizione: è il risultato degli scambi ineguali che caratterizzano il capitalismo. I Paesi industrializzati traggono le materie prime di cui le loro aziende hanno bisogno dal sottosuolo dei Paesi poveri. Senza produzione industriale, questi ultimi si impoveriscono importando manufatti. La Cina fa la sua parte in questo scambio ineguale, ma in posizione subordinata, poiché dipende essa stessa dai produttori americani o europei.

Rivali o alleati... ma diseguali

Spesso dipinte come formidabili rivali delle aziende europee o americane, le imprese cinesi operano in molti settori in associazione con i principali gruppi occidentali. In Uganda, la China National Offshore Oil Corporation (CNOOC) sta sfruttando il petrolio del lago Alberto insieme al gigante francese Total. Anche le banche cinesi sono tra i finanziatori dei progetti Tilenga e EACOP. Ma il vero padrone è Total, che detta le sue leggi ai partner e le impone ai governi, forte dell'immancabile sostegno delle autorità francesi.

Nel settore della telefonia, dalla fine degli anni 90 l'azienda privata Huawei ha contribuito in modo determinante alla costruzione delle reti digitali africane, in un settore trascurato dai capitalisti occidentali. Sebbene sia spesso accusata di spionaggio per le autorità cinesi dai suoi critici europei e americani, Huawei è in parte responsabile della manutenzione delle reti della francese Orange, uno dei principali operatori di telefonia mobile e di pagamento dell'Africa.

Nel settore dei lavori pubblici, molte dighe idroelettriche, ponti e strade sono costruiti da gruppi cinesi con la partecipazione di aziende occidentali. In Costa d'Avorio, la costruzione della diga di Soubré, inaugurata nel 2017 e che fornisce il 14% della produzione di energia elettrica del Paese, è stata guidata da Sinohydro e finanziata principalmente dalla Exim Bank of China. Ma le quattro turbine - tra le parti tecnologicamente più avanzate, con il maggior valore aggiunto - sono state costruite dalla francese Alstom, mentre la gestione ambientale del progetto è stata curata da Tractebel, una controllata dael gruppo Engie.

Nel caso dei veicoli, la cosiddetta produzione "cinese" può nascondere legami con i capitalisti occidentali, e anche in questo caso la Cina è un subappaltatore degli imperialisti americani, giapponesi o europei. Il produttore cinese Foton vende in Africa camion su licenza di Daimler-Benz, veicoli a basso costo che da decenni sono invendibili in Europa. In Tunisia, Peugeot sta collaborando con Dongfeng per produrre un pick-up derivato da un vecchio modello giapponese Nissan. Le case automobilistiche sono sia concorrenti, pronte a "mangiare nel piatto del vicino", secondo le parole dell'ex amministratore delegato di Stellantis Tavares, sia alleate temporanee nella guerra commerciale che stanno conducendo l'una contro l'altra.

La Cina è una potenza imperialista in Africa?

Il termine "Chinafrica", caro ai difensori degli interessi dell'imperialismo francese che hanno costantemente confutato il termine "Françafrique", non ha alcuna realtà. La Cina sta investendo in tutto il continente ma l'Africa non è omogenea perché è divisa in 54 Paesi. La Cina ha stretto relazioni solo con un numero ristretto di Paesi: Sudafrica, Algeria, Angola, RDC, Egitto, Nigeria e Sudan. Soprattutto, la Cina non ha un'eredità coloniale e i suoi investimenti sono molto modesti. Ma alcuni, anche nell'estrema sinistra, parlano di un nuovo imperialismo cinese, citando come prova le Nuove vie della seta, il peso economico della Cina nei porti e nelle miniere e le sue partecipazioni nel debito pubblico (1).

La Cina ha aperto zone economiche esenti da tasse in diversi Paesi africani per incoraggiare l'insediamento dei suoi capitali, ma con un successo limitato. Spesso le linee ferroviarie che finanzia sono poco redditizie o addirittura in perdita, come la linea da Addis Abeba a Gibuti. Alcuni dipendenti cinesi delle sue imprese statali sono rimasti in Africa, hanno aperto attività commerciali o hanno condotto le loro famiglie di agricoltori per creare allevamenti intensivi di suini o polli, che vengono venduti a prezzi più alti di quelli cinesi. In alcuni Paesi, i produttori locali di uova e polli sono stati estromessi dagli allevamenti cinesi, più produttivi. Ma nella guerra economica globale, il pollo ha poco peso.

Fino al 2016, le quattro principali banche statali cinesi hanno prestato ingenti somme ai Paesi africani. Ma da allora questi prestiti sono diminuiti drasticamente, a causa delle incertezze sui rimborsi e delle difficoltà della stessa economia cinese. La Cina detiene oggi solo l'8% del debito pubblico africano, mentre i finanziatori privati ne detengono il 60%. Questi avvoltoi sono soprattutto fondi occidentali: le banche americane Citigroup, JPMorgan, Bank of America, il fondo BlackRock, la banca britannica Barclays, l'assicuratore tedesco Allianz, il Crédit Agricole, BNP-Paribas e Société Générale.

In l'imperialismo, lo stadio supremo del capitalismo, Lenin ha fatto dell'esportazione di capitali una caratteristica fondamentale dell'imperialismo. A questo proposito, gli investimenti in Africa provenienti dalla Cina sono molto più limitati di quanto la propaganda dei difensori dell'imperialismo occidentale voglia far credere. Nel 2021, questi investimenti erano al quinto posto, seguendo quelli di Paesi Bassi, Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Quest'anno sono stati pari a 4,9 miliardi di dollari per tutta l'Africa, l'equivalente degli investimenti del gruppo americano Pepsi nel solo Messico. Al di là delle cifre modeste, c'è anche una differenza qualitativa. I capitali occidentali sono principalmente quelli di aziende private, che possono andare e venire liberamente. I capitali provenienti dalla Cina appartengono principalmente a grandi aziende legate allo Stato centrale o ai governi delle province cinesi. Grazie alla tutela del loro potente Stato centralizzato queste aziende cinesi possono sedersi al tavolo dei briganti ma non sono allo stesso livello dei loro concorrenti capitalisti occidentali.

Gli Stati Uniti fanno pressione sulla Cina

Ma con l'aggravarsi della crisi e l'intensificarsi della guerra economica, la pressione degli Stati Uniti sulla Cina sta aumentando anche nel continente africano. Il controllo dell'estrazione e del trasporto dei metalli, troppo dominati dalla Cina agli occhi degli imperialisti, è diventato il fulcro della rivalità. L'Europa, divisa in una moltitudine di borghesie e Stati in competizione tra loro, non è abbastanza grande per equipararsi al peso economico della Cina. Gli Stati Uniti, invece, hanno i mezzi per difendere i propri interessi e non esitano a intervenire se lo ritengono necessario.

In Angola, con il pretesto di accelerare e garantire il trasporto dei minerali, gli Stati Uniti hanno investito nel "corridoio di Lobito", una vecchia linea ferroviaria che collega il porto angolano di Lobito al Katanga, nel sud della RDC. Alla fine del 2024, Joe Biden ha visitato Lobito e ha annunciato un ulteriore investimento di 500 milioni di dollari su un totale di 1,6 miliardi. Il consorzio cinese che aveva presentato l'offerta per i lavori è stato respinto a favore di un altro, guidato dall'operatore svizzero Trafigura, che è stato coinvolto in diversi scandali di corruzione. Questi dettagli non hanno impedito a Joe Biden di denunciare la presenza della Cina in Africa, sostenendo che ha un "programma di indebitamento e confisca". In tal caso la potenza imperialista dominante, è davvero il bue che dice cornuto all'asino.

Negli ultimi due decenni, pur essendosi fatta carico di progetti infrastrutturali essenziali per l'esportazione delle risorse naturali del continente e avendo concesso prestiti a Stati africani messi in ginocchio dai finanziatori occidentali, la Cina è ben lungi dall'essere lo spietato usuraio di cui parlava Biden. Nell'economia globale, questo Paese svolge il ruolo di subappaltatore e non ha le stesse armi delle potenze imperialiste per difendere gli interessi delle sue imprese, che sono essenzialmente statali e non private come nel capitale occidentale. Un altro segno indicativo decisivo che la Cina non è una potenza imperialista è il suo limitato peso militare in Africa.

Imperialismo e presenza militare

Pur essendo grande e ben equipaggiato, l'esercito cinese non è in grado di proiettarsi in Africa, addestrare soldati o sostenere regimi alleati, come ha fatto per decenni la Francia nel suo ex impero coloniale e come fanno ovunque gli Stati Uniti.

Dal 2017 ha una base a Gibuti, che ha soprattutto un ruolo logistico, in particolare per le operazioni di "peacekeeping" delle Nazioni Unite. L'esercito cinese fornisce forze di pace: entro il 2023, ha schierato 1 852 uomini in Africa, in Mali, Sudan meridionale, Darfur, RDC e Repubblica Centrafricana. Si tratta di una cifra ben lontana dai 6.000 soldati americani che operano in Africa sotto il controllo dell'AFRICOM, il comando militare dell'esercito statunitense per l'Africa. A questo numero bisogna aggiungere i 4.000 uomini di stanza nella base militare americana di Gibuti, accanto alla vecchissima base francese con 1.450 uomini. AFRICOM, che occupa 29 siti in 15 Paesi africani, impiega almeno altrettanti mercenari provenienti da compagnie militari private, che agiscono con totale discrezione per difendere gli interessi dell'imperialismo americano. Sotto questo aspetto la realtà della Cina è molto diversa.

Sono ancora la Francia e la Gran Bretagna, e sempre più gli Stati Uniti, a fornire la maggior parte dell'addestramento degli ufficiali agli eserciti africani. Queste relazioni dimostrano la loro dipendenza dalle potenze imperialiste, a partire dagli Stati Uniti, che ogni anno organizzano esercitazioni militari durante le quali i loro ufficiali e quelli degli eserciti africani stabiliscono legami. Esportare capitali, usare metodi duri per estendere la propria influenza, minare quella dei concorrenti, avere antenne in ogni Paese: anche questi sono i tratti distintivi del dominio imperialista. Sotto tutti questi aspetti, la Cina ne è molto lontana

Dalla Cina o da altrove, i padroni restano sfruttatori

Pur non appartenendo ad un imperialismo, le aziende cinesi non sono da meno per quanto riguarda lo sfruttamento della classe operaia. Fino al 2016, di solito importavano il loro personale, compresi gli operai specializzati, dalla Cina, ma stanno assumendo sempre più spesso lavoratori africani. La loro posizione di subappaltatori, in settori spesso meno redditizi, le incoraggia a usare metodi brutali. Nell'ambito delle costruzioni in Costa d'Avorio, un operaio qualificato che lavora per una filiale della società francese Bouygues può guadagnare 12.000 franchi CFA al giorno, mentre nelle aziende cinesi i lavoratori guadagnano circa 4.000 franchi al giorno, a volte meno, o circa 6 euro al giorno. Per guadagnare un po' di più, 7.000-8.000 franchi, bisogna fare molti straordinari, ogni giorno. Per questa situazione, le aziende cinesi non sono molto popolari tra i lavoratori, ma ciò non comporta necessariamente un sentimento anti-cinese. Nelle aziende cinesi, i capi portano ancora i loro capetti dalla Cina, ma non sono privilegiati. Vivono in modo misero e lavorano ore e ore, in condizioni ben lontane da quelle confortevoli di cui godono i dirigenti europei "espatriati", che hanno un'auto, strutture per il tempo libero e personale domestico.

Dietro ai boss cinesi, i principali profittatori sono le società di consulenza europee, le più importanti banche occidentali e i trust come la francese CMA CGM e l'italo-svizzera MSC, che controllano il traffico di container e i porti. I padroni cinesi sono più visibili perché i loro piccoli capi agiscono come guardie per sfruttare i lavoratori. A volte, scioperando, i lavoratori riescono a ottenere qualche aumento di stipendio o qualche tutela della sicurezza.

Nel numero di dicembre 2024 di Le Pouvoir aux travailleurs (Potere ai lavoratori), i nostri compagni africani dell'UATCI (UCI) descrivono uno sciopero in un cantiere stradale della Sinohydro, nella Costa d'Avorio, che ha coinvolto 300 lavoratori. Uno scioperante spiega: "Lavoriamo 10 ore al giorno, sette giorni su sette, per una miseria. Ci siamo organizzati per chiedere 3.000 franchi CFA al giorno per tutti [...]. Nelle prime ore di giovedì 9 gennaio, i picchetti hanno iniziato a percorrere il sito per trascinare il maggior numero possibile di compagni. Verso le 10 del mattino l'intero sito era paralizzato [...]. Poiché la nostra azione è stata ben sostenuta, la direzione è stata costretta a ricevere una delegazione di scioperanti e ha promesso un primo pagamento a partire dal 20 gennaio. È in questa atmosfera che siamo tornati al lavoro la mattina successiva, dopo una breve riunione per decidere quali azioni intraprendere se non fosse stato fatto nulla entro il 20 gennaio. Non ci facciamo ingannare. Abbiamo a che fare con dei capitalisti e queste persone capiscono solo il linguaggio della forza".

Non cadere nella trappola dell'unità nazionale, in Africa come in Europa

Ovviamente i capitalisti e i governanti cinesi non possono essere considerati alleati degli sfruttati in Africa, così come i burocrati e gli oligarchi russi guidati da Putin. I dirigenti africani, come i capi militari del Mali e del Burkina Faso, possono seguire la via di allentare un po' la morsa imperialista per avere un sostegno. Ma, pronti a schiacciare la minima protesta, il minimo sciopero, e addestrati a farlo nelle scuole militari occidentali, non possono rappresentare gli interessi delle masse povere o essere un sostegno per loro. Ovviamente non è migliore la propaganda condotta in Francia contro la "Cinafrica" o la presenza russa in Africa. È finalizzata alla preparazione di futuri interventi imperialisti, con il pretesto di difendere la democrazia, in realtà diretta agli interessi di gruppi come la Total. Ci sono molti lavoratori cinesi nell'Africa subsahariana e nel Maghreb e, anche se la loro situazione può sembrare leggermente migliore di quella dei loro fratelli africani, appartengono tutti alla stessa classe operaia. Rappresentano il futuro, proprio come nelle cittadelle dell'imperialismo globale.

28 marzo 2025

(1) "La Chine, nouvel impérialisme émergé", L'Anticapitaliste, novembre 2021.