Il proletariato internazionale, l'unica classe in grado di farla finita con il capitalismo e lo sfruttamento!

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4 marzo 2015

Relazione del circolo Lev Trotsky del 4 marzo 2011

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Introduzione

Da due mesi viviamo con lo sguardo rivolto al mondo arabo. Ovviamente la rivolta della popolazione di questi paesi è entusiasmante per noi rivoluzionari, in primo luogo per il piacere di veder crollare in poche settimane dittature vecchie di parecchi decenni; e poi perché il diffondersi della rivolta a macchia d'olio, da un paese all'altro, passando dalla Tunisia all'Egitto, saltando la Libia per poi tornarci qualche giorno dopo, tutto ciò dà vita e concretezza a quello che diciamo da molto tempo sulla possibilità di movimenti che si propaghino da un paese all'altro; e tutto questo non succedeva da tempo, da troppo tempo. Speriamo, con tutte le nostre forze, che questi avvenimenti aprano un nuovo periodo storico, un periodo di rinnovo delle lotte e forse, domani, di rivoluzioni!

Ma c'è una cosa altrettanto importante in questi avvenimenti, ed è l'assenza in queste rivolte del proletariato in quanto forza politica. Non si tratta di un'assenza fisica: c'erano certamente operai sulla piazza Tahrir del Cairo, e anche tra i manifestanti in Tunisia. No, l'assenza del proletariato da questi avvenimenti si è verificata a livello politico: nessun partito, nessuna organizzazione ha fatto sentire la sua voce, nessun partito, nessuna organizzazione ha cercato di definire o di esprimere una politica autonoma per la classe operaia.

Oggi non ci sono più grandi partiti politici che rappresentino gli interessi del proletariato; si può dire che da decenni il proletariato non è più apparso in quanto tale sulla scena politica, e non ha più peso negli avvenimenti. Inoltre, un cospicuo numero di intellettuali afferma chiaro e tondo che esso è semplicemente scomparso, che la classe operaia non esiste più.

Eppure noi, comunisti rivoluzionari, vediamo ancora nel proletariato l'unica classe in grado di fare la rivoluzione contro il capitalismo, l'unica classe in grado di liberare per sempre l'umanità dal flagello dello sfruttamento e dell'oppressione.

Perché i marxisti sono convinti che solo il proletariato possa svolgere questo compito? Come spiegare perché oggi il proletariato non riesce più a giocare il ruolo politico che storicamente era il suo? E che cosa rappresenta il proletariato oggi, è una classe che si rafforza oppure una classe in declino?

La storia del proletariato è inseparabile dalla storia delle sue organizzazioni. In quanto classe, il proletariato non ha mai smesso di crescere numericamente dal 19° secolo. Ma la sua consapevolezza dei propri interessi e dei mezzi di emanciparsi ha subito importanti evoluzioni nel corso della sua storia.

Fin dalla nascita del proletariato moderno, la lotta di classe non si è mai interrotta: a volte aperta e violenta, a volte sorda e quasi sotterranea, talvolta condotta per iniziativa degli oppressi, ma più spesso condotta in risposta agli attacchi della borghesia, la lotta della nostra classe ha conosciuto un susseguirsi di vittorie e di sconfitte. Ma durante tutto l'Ottocento e parte del Novecento, l'espansione numerica e geografica del proletariato fu accompagnata dallo sviluppo di partiti, dall'emergere di militanti che si impegnarono a dargli una coscienza. Anche le sconfitte che la classe operaia subì furono superate, e poi furono assimilate dalla coscienza collettiva dei lavoratori, analizzate e spiegate da grandi rivoluzionari comunisti della statura di Marx, Rosa Luxemburg, Lenin o Trotsky. Ed imparando dai propri errori, il proletariato si rafforzò politicamente.

Negli anni '20, dopo il tradimento della socialdemocrazia e la nascita dello stalinismo, l'evoluzione si è rovesciata. I partiti del movimento operaio non avevano più l'obiettivo di far crescere la coscienza dei lavoratori, bensì quello di rafforzare i propri apparati - legati direttamente, per quanto riguarda i socialisti alla borghesia, e per gli stalinisti alla burocrazia sovietica, che divenne di per sé un fattore importante di conservazione dell'ordine capitalista nel mondo. Invece di condurre avanti quanto più possibile le lotte, questi partiti cominciarono a frenarle; invece di dire la verità ai lavoratori, cominciarono a mentire. Invece di analizzare e comprendere le sconfitte, le mascherarono in grandi vittorie. Il movimento operaio, da quel momento, agì in realtà contro la classe operaia. Oggi stiamo ancora pagando le conseguenze di questa evoluzione.

L'ascesa del movimento operaio

Agli inizi della rivoluzione industriale, a cavallo tra il 18° e il 19° secolo, il giovane proletariato fu letteralmente schiacciato dalle condizioni di lavoro e di vita che gli erano imposte: ex contadini liberi, ex artigiani, erano stati espropriati dalla borghesia in via di sviluppo, che aveva bisogno per le sue nuove fabbriche di una forza lavoro che non possedesse nulla, né attrezzi, né macchinari, né terreni - cioè che non avesse nessuna scelta tranne quella di lavorare nelle fabbriche o di morire di fame. È questa l'esatta definizione della parola proletariato: una classe che non possiede nulla e che, per guadagnarsi la vita, può solo proporre la sua forza lavoro ad un padrone, in cambio di uno stipendio.

La borghesia ha così trasformato milioni di uomini, donne, bambini, in macchine per produrre, la cui la vita e la cui morte non hanno nessuna importanza. I proletari sono liberi, sono affittati all'ora, al giorno, alla settimana... Muoiano pure, ce ne saranno sempre altri per sostituirli! Per il proprietario di schiavi dell'antichità, lo schiavo era una proprietà, che bisognava più o meno proteggere per ammortizzare la spesa. Per il padrone capitalista, nulla di simile: un operaio ucciso o mutilato non costa nulla. Quando Engels descrive la città di Manchester, nei primi anni '40 dell'Ottocento, vede tanti mutilati da poter scrivere: "Sembra di vivere in mezzo a un esercito appena tornato dalla guerra", e aggiunge: "Per il mondo operaio, vivere significa non morire".

Questi lavoratori, assunti nelle fabbriche, erano precipitati nella miseria assoluta ed erano passati dalla relativa libertà del contadino o dell'artigiano a condizioni da campo di concentramento. Durante i primi anni della rivoluzione industriale, questa drammatica caduta in un abisso sociale impedì lo sviluppo delle lotte, tranne in modo sporadico e brutale. Le prime lotte del proletariato si limitarono ad esplosioni selvagge, in cui l'odio per lo sfruttatore portava alla distruzione degli impianti e talvolta all'uccisione del padrone stesso. Queste esplosioni di rabbia esprimevano solo la volontà cieca dei proletari di tornare allo stato precedente: rompere i macchinari, bruciare le fabbriche, era la speranza di dare una battuta d'arresto alla tendenza alla meccanizzazione che li aveva espropriati. All'inizio dell'Ottocento, nessuno ancora esprimeva l'idea che il macchinismo potesse essere un progresso ripreso in mano dai lavoratori per creare una nuova società.

Dal socialismo utopistico alle prime lotte

Le prime idee socialiste emersero nella stessa epoca; ma anch'esse non avevano nulla a che fare con quello che sarebbero diventate nei decenni successivi. I primi socialisti erano filantropi, sorti dagli ambienti borghesi, sinceramente inorriditi dalle condizioni imposte ai lavoratori, ma ancora incapaci di capire che la classe operaia poteva emancipare se stessa. Per questi filantropi, la soluzione alla misera operaia poteva venire solo dall'alto, dalle classi ricche e colte. I più sinceri di questi socialisti dedicarono la loro vita, da un lato ad elaborare progetti di società ideali, e dall'altro a cercare di convincere i ricchi a partecipare a questi progetti e a finanziarli. Si racconta che il socialista Fourier, per esempio, attese tutta la vita - invano, naturalmente - che un milionario in grado di finanziare la società futura venisse all'appuntamento da lui fissato, ogni giorno, nei giardini del Luxembourg a Parigi...

Contemporaneamente all'esistenza di questo movimento - che Marx poi descrisse come "socialismo utopistico" - nel seno stesso della classe operaia cominciavano ad emergere sia dei militanti che una coscienza. La coscienza sorgeva dalle stesse condizioni di esistenza del proletariato: la borghesia aveva espropriato i lavoratori, aveva negato loro ogni possibilità di emancipazione individuale, aveva rotto le vecchie relazioni più o meno patriarcali che esistevano in precedenza, nelle corporazioni, tra maestri e lavoratori. In questo modo, aveva anche creato le condizioni perché sorgesse la coscienza della necessaria solidarietà. Si fecero quindi strada le prime organizzazioni operaie; si cominciava ad avvertire la necessità di unirsi per ottenere insieme quello che il padrone non avrebbe mai dato a ciascuno individualmente. Nacquero così, sin dall'inizio dell'Ottocento, le prime casse di solidarietà operaia.

Allo stesso tempo, cominciarono a svilupparsi le prime lotte che andavano oltre l'obiettivo della distruzione dei macchinari: gli anni '30 dell'Ottocento videro lo scoppio, in Francia e in Inghilterra, di lotte operaie di tutt'altra ampiezza, sia per la loro profondità che per il loro carattere di massa: così l'insurrezione dei lavoratori della seta a Lione - i "canuts" - nel 1832, e il movimento cartista in Inghilterra, il primo movimento organizzato dei lavoratori che chiese diritti politici per la classe operaia. Dal proletariato stesso sorgevano i primi militanti, dedicati corpo e anima al miglioramento della sorte della loro classe, ma che fino all'avvento del marxismo sarebbero rimasti convinti che questo miglioramento sarebbe stato possibile solo con un intervento dall'alto, grazie all'azione di uomini illuminati che avrebbero agito al servizio del popolo.

1848: Il Manifesto del Partito Comunista...

Fu l'anno 1848 a segnare, sotto due aspetti, una rottura fondamentale in questa situazione: sia perché fu l'anno della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, sia perché, per la prima volta, il proletariato si eresse da protagonista sulla scena rivoluzionaria, come classe indipendente.

Il proletariato considerato come una classe rivoluzionaria

Il Manifesto del Partito Comunista espresse per la prima volta l'idea che l'emancipazione del proletariato non sarebbe venuta da altre classi sociali, ma dal proletariato stesso. Il proletariato non era più visto come una classe vittima e sofferente, che poteva sperare il cambiamento del suo destino solo dall'aiuto di intellettuali o filantropi illuminati, bensì come una classe rivoluzionaria attiva, o meglio come la classe che porta in sé il futuro di tutta l'umanità.

Gli autori del Manifesto del Partito Comunista, Marx ed Engels, che erano giovani di 28 e 30 anni, erano dei rivoluzionari. Prima di loro, altri intellettuali avevano studiato lo sconvolgimento più spettacolare che la storia politica avesse mai conosciuto fino a quel momento, la Rivoluzione francese. E ne avevano tratto la conclusione che questa rivoluzione era stata il risultato di una lotta tra due classi sociali, la nobiltà e la borghesia. Marx quindi cercò di capire quale classe era, alla sua epoca, in grado di assumere il ruolo rivoluzionario svolto dalla borghesia nel 1789.

Marx aveva frequentato, sin dalla gioventù, i militanti dei primi movimenti operai organizzati, e aveva divorato gli scritti dei socialisti utopisti. In quanto ad Engels, aveva vissuto a fianco della classe operaia inglese, ed era divenuto consapevole della forza sociale che rappresentava. Il lavoro che compirono mirava a dare un programma ai rivoluzionari, non basandosi solo su ciò che avevano davanti agli occhi, ma riuscendo a capire la collocazione, il ruolo, l'evoluzione delle varie classi della società in cui vivevano.

Secondo una delle idee fondamentali del Manifesto, la classe operaia è l'unica classe destinata a crescere, mentre le altre classi sociali sono destinate inevitabilmente al declino. Ai tempi di Marx, lo sviluppo del capitalismo, la meccanizzazione, giorno dopo giorno portavano sempre più artigiani e piccoli imprenditori alla rovina, e li costringevano ad unirsi alle file del proletariato. Questo strato sociale di artigiani e piccoli imprenditori era ancora la maggioranza, ma non aveva né futuro, né alcuna prospettiva da offrire alla società: quando era in lotta contro il capitalismo, non era per progredire, ma per tornare indietro, per provare ad ostacolare lo sviluppo della grande industria, e questo non era un obiettivo rivoluzionario, ma reazionario nel vero senso della parola.

Invece, ciò che fa del proletariato una classe fondamentalmente rivoluzionaria è il fatto che la società borghese non gli lascia alcuna possibilità, alcuna speranza di emancipazione individuale. Un proletario che torna allo stato di artigiano o di piccolo imprenditore non ha altra prospettiva, se non quella di essere rovinato dalla concorrenza di padroni più ricchi di lui - e quindi attrezzati meglio - e di tornare in fabbrica. Quanto alla possibilità che i lavoratori lottino per la proprietà individuale di una parte dei loro strumenti di lavoro, di una particella dei macchinari o della loro fabbrica, è ovviamente assurda e inimmaginabile! Perciò, essi non hanno in fin dei conti nessun'altra scelta, se non quella di lottare per la proprietà collettiva o, per dirlo in un altro modo, per l'abolizione della proprietà privata delle fabbriche. È l'enorme differenza tra la borghesia rivoluzionaria del Settecento e il proletariato: i borghesi hanno fatto la rivoluzione in modo che i loro privilegi, acquisiti sotto il vecchio regime, potessero affermarsi e svilupparsi senza ostacoli. I proletari invece non hanno alcun privilegio da consolidare: non hanno, diceva Marx, "nulla di proprio da salvaguardare" nella società capitalista, e possono cambiare il mondo solo abolendo completamente ogni relazione di sfruttamento. È ciò che fa del proletariato la classe più rivoluzionaria che l'umanità abbia mai conosciuto, e l'unica totalmente opposta ai capitalisti.

Fin dall'inizio della rivoluzione industriale, il proletariato si è concentrato in città sempre più grandi, condividendo le stesse condizioni di vita. Immersi nelle città, in mezzo ad un immenso incrocio di culture e di tecniche, i proletari hanno modificato non solo il loro modo di vivere, ma il loro modo di pensare, dopo essere stati, come scrisse Marx, "strappati alla stupidità della vita rurale". Messi di fronte ai macchinari, all'obbligo di dover fronteggiare tutte le evoluzioni della vita moderna, i lavoratori delle città formarono effettivamente una nuova categoria di sfruttati, infinitamente più reattivi e più aperti dei contadini. Questo, lo stesso Édouard Schneider, uno fra i più grandi capitalisti francesi del secolo, lo esprimeva dicendo: "L'uomo che ara con i suoi buoi pensa lentamente. Quello che lavora con il vapore pensa ed agisce velocemente". Del resto è questo che spiega perché la classe operaia è stata così rapidamente penetrata dalle idee rivoluzionarie, perché ha imparato così presto ad organizzarsi e a lottare.

Furono le condizioni di vita imposte dai capitalisti ai proletari, la confusione totale della loro esistenza, a creare le premesse di questa presa di coscienza. Alcuni lavoratori delle ferrovie di Slesia, nel 1844, così si esprimevano a questo proposito in una lettera: "(La situazione) ha per noi un vantaggio: siamo venuti qui a migliaia, abbiamo imparato a conoscerci, e i nostri rapporti ci hanno aperto la mente, almeno alla maggior parte di noi. Non c'è quasi più nessuno tra di noi che creda ai vecchi scherzi. Quello che non si osava nemmeno sussurrare a bassa voce, a casa, lo diciamo ora a voce alta: siamo noi che manteniamo i ricchi, e dipende solo dalla nostra volontà far sì che patiscano la fame, se non vogliono lavorare".

Il plusvalore

"Siamo noi che manteniamo i ricchi ". Questa idea, questa intuizione, espressa così semplicemente in questa lettera, fu successivamente chiarita in modo scientifico da Marx. Uno dei principali contributi di Marx fu nel cogliere il fatto che il proletariato, nella società capitalista, è la classe sociale che produce la ricchezza della società. Marx ha distrutto la visione idilliaca propagandata dalla borghesia, per cui i proletari riceverebbero, in cambio del loro lavoro, un giusto compenso sotto forma di salario. Se il salario fosse l'equivalente, in valore, di quello che i lavoratori producono, come farebbero i borghesi ad arricchirsi? In realtà il lavoratore riceve, sotto forma di salario, soltanto una parte del valore delle ricchezze che ha prodotto. L'altra parte, che Marx chiama plusvalore, è intascata dal capitalista. Una frazione di questo plusvalore circolerà successivamente in tutta la società, sotto forma di investimenti o sotto forma di tasse, e permetterà di finanziare in misura maggiore il funzionamento dell'intera società.

Questa scoperta di Marx mette in luce il fatto che il proletariato è la classe sulla quale si basa tutta la società capitalista, poiché essa crea l'essenziale della ricchezza. Sono ovviamente esistiti da sempre lavoratori manuali, ed anche lavoratori dipendenti - fin dall'antichità - ma la differenza fondamentale con l'epoca moderna è che la loro produzione non rappresentava la base del sistema. Invece il proletariato, questa classe formata da milioni di uomini e di donne che hanno solo la loro forza lavoro per vivere, è la classe sulla quale si basa tutta la costruzione sociale del capitalismo.

Se fin dal Manifesto Marx percepì che il proletariato era una classe potenzialmente rivoluzionaria, invece non pensò mai che lo sarebbe diventata in modo automatico. Occorrevano idee e una teoria, una teoria di cui i lavoratori potessero impadronirsi per, come dice Marx, "farne una forza".

Ma perché ciò possa accadere, le idee devono esistere, vivere, e ciò può avvenire solo con il lavoro di militanti in carne e ossa.

Il testo di cui parliamo si chiama, ricordiamolo, Manifesto del partito comunista. Sin da quell'epoca, Marx era profondamente convinto che la classe operaia, per diventare rivoluzionaria, avesse bisogno di una coscienza, e che questa coscienza potesse esprimersi soltanto tramite un partito. Marx ed Engels lo esprimono, nel Manifesto, con una frase che non potrebbe essere più chiara : "I comunisti lottano per raggiungere i fini e gli interessi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo il futuro del movimento".

Questa frase riassume tutte le concezioni militanti dei comunisti: nel pensiero di Marx non c'è rottura tra il programma per oggi e il programma per domani, tra rivendicazioni immediate ed interessi storici del proletariato. Vanno di pari passo: un militante comunista difende, ogni giorno, l'idea che il proletariato deve lottare per il minimo vantaggio materiale, il minimo aumento di salario, il minimo miglioramento delle sue condizioni di lavoro. Ma allo stesso tempo, difende l'idea che l'emancipazione del proletariato si realizzerà solo con l'espropriazione dei capitalisti, e che solo il proletariato è capace di incaricarsene. La lotta per gli interessi quotidiani alimenta la coscienza degli interessi storici, ed è per questo che un comunista non può separare questi due aspetti.

Sin dal Manifesto Comunista, i principi del comunismo sono chiari: il proletariato è l'unica classe che può trasformare la società e porre fine allo sfruttamento; di conseguenza, ha bisogno di una coscienza di classe - di cui il partito è al tempo stesso la condizione ed il risultato. Per decenni, generazioni di militanti si diedero il compito di far penetrare quest'idea nella classe operaia. Per decenni, le migliaia di ribelli che sorsero dalla classe operaia ebbero la possibilità di incontrare questi militanti e di essere influenzati da loro.

... e la rivoluzione!

Non a caso il Manifesto fu pubblicato nel 1848, e non cinquanta anni prima o cinquanta anni dopo. Il Manifesto esprimeva politicamente idee che stavano maturando nella testa dei lavoratori stessi. Infatti il 1848 fu anche l'anno di una rivoluzione che infiammò l'intera Europa, e segnò una rottura profonda tra la borghesia ed il proletariato. Gli avvenimenti svoltisi quell'anno, in particolare in Francia, furono il primo episodio di una storia che dopo si ripeté tante volte e si ripete ancora oggi : l'insurrezione scoppiò nel febbraio del 1848 per rovesciare il re Luigi Filippo, e si svolse all'inizio sotto la bandiera della sacra unione tra gli operai ed una parte della borghesia e della piccola borghesia. Ma non appena, in tre soli giorni, il re fu rovesciato e la repubblica proclamata, borghesi e piccolo borghesi pretesero dal proletariato che tornasse al lavoro, e soprattutto che non si immischiasse negli affari politici - giacché, come diceva il poeta Lamartine, nuovo capo del Governo, "era stata gettata al popolo questa parola che lo affascina:Repubblica".

Il "popolo" però, né si lasciò abbagliare dalla parola repubblica, né fu messo a tacere dai discorsi dei repubblicani sulla fratellanza universale fra tutte le classi: durante i mesi successivi al febbraio '48, gli operai reclamarono che la repubblica si traducesse anche in pane e lavoro. Di fronte all'incapacità del governo sorto dall'insurrezione di febbraio di trattare la questione della miseria operaia, nel mese di giugno gli operai scesero di nuovo in piazza, da soli questa volta, nel corso di un'insurrezione in cui, per la prima volta, il proletariato si presentò come classe dagli interessi particolari, che si poteva emancipare solo combattendo tutte le tendenze della borghesia.

Il 23 giugno 1848, al Panthéon, mentre 7000 operai raggruppati dietro le barricate fronteggiavano l'esercito pronto a sparare, il repubblicano Arago salì a parlamentare e a spiegare agli operai che tutto ciò era solo un malinteso, e che dovevano difendere la repubblica. Dalla barricata, un operaio esclamò: "Signor Arago, lei non ha mai avuto fame". E la sparatoria cominciò.

L'insurrezione del giugno 1848 fu ferocemente schiacciata dalla borghesia. I combattimenti a Parigi durarono una settimana e fecero 3000 morti. L'ampiezza stessa del massacro dimostrava quanto anche la borghesia avesse capito il pericolo rappresentato da questa nuova classe sociale che, come aveva scritto Marx nel Manifesto, non aveva nulla da perdere fuorché le sue catene. E mentre a Parigi la borghesia faceva fucilare gli operai, nel resto d'Europa la stessa borghesia liberale arretrava terrorizzata, dopo essersi appoggiata alla classe operaia per le sue rivoluzioni. Preferiva adattarsi ai regimi esistenti - anche se questi non le lasciavano tutto il posto che pretendeva - piuttosto che cercare ancora l'appoggio di un proletariato sempre meno disposto ad accontentarsi del ruolo di fante docile.

Dagli avvenimenti del '48, i rivoluzionari più coscienti capirono che la borghesia e il proletariato avevano interessi fondamentalmente opposti, che la società non sarebbe cambiata dall'unione delle classi, ma dalla lotta tra le classi. E quindi occorreva oramai lottare perché il proletariato si organizzasse in partiti indipendenti.

La costruzione dei partiti operai

Il mezzo secolo seguente fu quello della costruzione di questi partiti. Per tutto un periodo storico, che sarebbe durato fino alla rivoluzione russa, l'ascesa numerica del proletariato procedette di pari passo con lo sviluppo delle sue organizzazioni e la comparsa di migliaia e migliaia di militanti, lavoratori o intellettuali, tutti convinti che occorreva seminare le idee rivoluzionarie nel proletariato per poter vederle maturare un giorno.

Battaglia di idee

L'arretramento provocato dalla sconfitta della rivoluzione del 1848, sommato ad un periodo di ritrovata prosperità economica del capitalismo, portarono al riflusso temporaneo dell'organizzazione e delle idee: dato che la rivoluzione era fallita, occorreva forse rivolgersi ad altri strati sociali, trovare metodi alternativi alla rivoluzione? Quegli anni videro una grande battaglia di idee tra militanti rivoluzionari di ogni tendenza. Una battaglia che oppose i pochi marxisti da un lato, agli anarchici che non credevano all'utilità dei partiti operai dall'altro; ai fautori di Proudhon, che pensavano che occorresse restaurare l'artigianato contro la grande industria, e rifiutavano gli scioperi; ai fautori di Bakunin, che avevano tratto dalla sconfitta del proletariato la convinzione che occorreva sostituirsi all'azione delle masse operaie ed accelerare la rivoluzione - ossia sostituirla - con attentati terroristici.

Alcune correnti facevano affidamento, per realizzare la rivoluzione, non sugli operai ma sui contadini, senza capire che i contadini, sparsi, eterogenei, isolati gli uni dagli altri, non avrebbero mai potuto raggiungere l'omogeneità che la concentrazione nelle città dava al proletariato. E soprattutto senza capire che i contadini poveri, se non guidati dal proletariato rivoluzionario, non avrebbero potuto avere altro obiettivo che il possesso del proprio pezzo di terra; in altre parole, che avrebbero potuto applicare soltanto un programma borghese, che non avrebbe messo in discussione la proprietà, anzi l'avrebbe rafforzata.

Durante tutta la seconda metà dell'Ottocento, fu in fin dei conti l'evoluzione economica stessa, sommata alla combattività del proletariato, a chiarire questi dibattiti. L'evoluzione economica agì da protagonista perché fu questo il periodo dell'esplosione del proletariato industriale. Quando Marx scrisse il Manifesto, solo una minoranza del proletariato lavorava già in grandi fabbriche, e una parte considerevole dei lavoratori erano ancora artigiani - meccanici, ebanisti, tipografi, ecc... La seconda metà dell'Ottocento vide l'accelerarsi della scomparsa di questi artigiani, a favore degli operai di fabbrica. Il capitalismo si sviluppava a marce forzate, faceva sorgere immense città e fabbriche giganti. E nel corso degli anni gli operai scoprivano la loro forza collettiva grazie agli scioperi. Fu del resto con l'obiettivo di unificare queste lotte - e di impedire ai proprietari di reclutare crumiri all'estero - che fu creata nel 1864 la Prima Internazionale, che dava una prima realizzazione concreta all'appello che concludeva il Manifesto: Proletari di tutti i paesi, unitevi !

L'esempio della vita di un militante mostra come, allo stesso tempo, l'evoluzione del proletariato e l'attività delle sue organizzazioni potevano convincere della validità delle idee socialiste anche quei combattenti che, all'inizio, ne erano abbastanza lontani. È la vita di Eugène Varlin. Nato in campagna, arrivò a Parigi nel 1853, a 14 anni, per fare il suo apprendistato come operaio rilegatore - era il caratteristico ragazzo proletario, orientato dalle sue condizioni di vita verso idee tutt'altre che socialiste. Varlin viveva nella comunità degli artigiani rilegatori: cominciò dunque con l'aderire alle idee di chi voleva il restauro del piccolo artigianato e il ritorno alle relazioni patriarcali tra padroni e operai, cioè ai fautori di Proudhon. Ma un primo sciopero, nel 1864, gli fece scoprire la lotta di classe.

Varlin non era un comunista, ma era già un militante operaio, così descritto da un suo compagno: "Appena aveva guadagnato la sua pagnotta, lavorando di notte, correva da un capo all'altro della grande città per afferrare all'uscita dell'officina, della mensa o della latteria, tale o talaltro compagno, tale o talaltro gruppo. Li ascoltava, li svegliava, li influenzava, persuadeva i più riluttanti a dare il loro contributo alle società operaie".

Nel 1865, Varlin aderì alla Prima Internazionale, dove incontrò militanti marxisti. Partecipò a tutti gli scioperi, e sia la combattività del proletariato francese, sia le discussioni accanite con i suoi compagni dell'Internazionale lo portarono a prendere le distanze dalle sue vecchie idee proudhoniane. Dopo un anno di carcere, fu totalmente convinto della necessità di rovesciare la società capitalista, e di non contare sulla cooperazione tra piccoli proprietari e operai.

1871: la Comune di Parigi

Alcuni anni più tardi, nel 1871, si verificò un evento straordinario che avrebbe segnato una svolta nella storia del movimento operaio: la Comune di Parigi. Durante la Comune, gli operai si trovarono al potere nella capitale, e dimostrarono la propria capacità di inventare, in modo spontaneo, una nuova forma di stato, sorto direttamente dalla loro classe e da essa controllato. Quanta strada era stata percorsa in pochi decenni! La classe operaia dell'inizio dell'Ottocento, annientata, schiacciata dallo sfruttamento, aveva visto apparire una teoria che le permetteva di capire la società e i meccanismi dello sfruttamento, aveva fatto sorgere dalle sue file militanti che osavano contendere il potere alla borghesia. E ora esercitava anche direttamente un potere che spazzò via in pochi giorni le rovine politiche della società borghese, che impose la separazione tra chiesa e stato, abolì l'esercito permanente, instaurò la revocabilità degli eletti, inventò l'istruzione obbligatoria per i bambini!

Varlin - e quanti altri come lui? - fu convinto fino in fondo dalla Comune: la violenza con cui fu schiacciata dalla borghesia dimostrò che questa insurrezione era la strada da seguire, dal momento che suscitava tanta paura nei borghesi. La vigilia del giorno in cui Varlin fu arrestato ed ucciso, il vecchio propagandista della cooperazione tra proprietari ed operai diceva ad un compagno: "Sì, saremo squarciati vivi. Morti, saremo trascinati nel fango. Ma la storia alla fine vedrà chiaro". Identificato da un prete, denunciato, Varlin fu massacrato a calci di fucile dai soldati della borghesia. Dal suo cadavere rubarono l'orologio, unico bene che avesse mai posseduto dopo una vita di militante al servizio della classe operaia.

La Comune aveva dimostrato a tutti i Varlin del movimento operaio che la classe operaia aveva la capacità di essere non solo una classe che produce, ma anche una classe che dirige; aveva dimostrato che Marx non si era sbagliato quando aveva individuato in questa classe illimitate capacità d'inventiva e dedizione, capacità di rottura con il passato e d'immaginazione politica.

Sepolti i 40 000 morti della Comune, digerito il colpo terribile che questo massacro aveva provocato, il movimento operaio riprese la sua strada con una forza nuova.

Dall'apogeo della socialdemocrazia al suo tradimento

Sviluppo della socialdemocrazia e del proletariato

Nel 1889, pochi anni dopo la Comune, fu fondata la Seconda Internazionale, che si sarebbe sviluppata ben più largamente della Prima - e questa volta sulla base di un programma chiaramente socialista. Da questo momento il proletariato avrebbe avuto sempre più peso nella società, tanto dal punto di vista sociale che politico.

Dal punto di vista sociale, il capitalismo continuava a sviluppare la grande industria e al tempo stesso estendeva le sue ramificazioni su tutto il pianeta. La borghesia aveva allora definitivamente vinto la sua battaglia contro l'artigianato. Dopo l'epoca del tessile, poi quella delle ferrovie, venne alla fine dell'Ottocento quella dell'automobile. Un'attività del tutto artigianale all'inizio del Novecento fu industrializzata con inaudita velocità: ne è un esempio il piccolo produttore che nel 1898 impiegava sei meccanici a Boulogne-Billancourt, i quali costruivano un'auto ciascuno nel giro di sei mesi. Quattro anni dopo, la ditta Renault contava 500 operai e produceva 500 automobili. Nel 1935, ne avrebbe contati 33.000.

Il capitalismo partì alla conquista dell'Europa dell'Est, e fece nascere nuove fabbriche dalla Polonia ai Balcani. Alla svolta del secolo, era pronto per invadere anche l'immensa Russia, appena uscita dal feudalesimo. Nello stesso periodo, con la colonizzazione, la borghesia trasformava forzatamente, in particolare in Africa e Asia, milioni di contadini e artigiani in costruttori di ferrovie, minatori, coolies, portuali, braccianti nelle piantagioni di cacao o di alberi della gomma. Per la maggior parte, questi operai non erano ancora operai di fabbrica, perché il grosso delle industrie all'epoca era concentrato nelle metropoli, e solo in minima parte nelle colonie, però erano già dei proletari.

La classe operaia si è dotata in quegli anni di formidabili organizzazioni, ed appariva ben più chiaramente come la classe del futuro di quanto non si potesse immaginare a metà Ottocento; è stato allora che, riuscendo a prendere nelle mani tutte le grandi battaglie della società dell'epoca, è riuscita a trascinare letteralmente la società verso il futuro. Il movimento operaio diffuse per primo le idee più progressiste - la riduzione dell'orario di lavoro, la lotta contro i pregiudizi religiosi e antisemiti, la lotta per i diritti delle donne, per l'istruzione popolare, per l'unione internazionale tra i lavoratori, contro la guerra. I militanti dell'epoca, coscienti che lo sviluppo del capitalismo portava ogni giorno alla luce nuove schiere di proletari, dedicavano un'energia inesauribile a convincerli e a istruirli. Partivano per i confini estremi delle province più arretrate per incontrare i lavoratori e organizzarli, dagli operai contadini del nord della Svezia fino ai boscaioli del Far West americano; a volte venivano ricevuti a sassate, a volte anche linciati, ma il più delle volte si lasciavano alle spalle nuovi militanti.

L'illusione riformista

Combattivo e più organizzato di quanto non lo fosse mai stato, il movimento operaio, tra il 1880 e il 1914, riportò importanti vittorie, strappò ai proprietari salari e condizioni di vita migliori, fece entrare gli operai nei santuari politici della borghesia, i Parlamenti; fece incombere su tutta la società borghese il timore permanente delle rivoluzioni, costrinse la borghesia a fare concessioni... fino al punto di crearsi delle illusioni. A forza di conquistare roccaforti, a forza di strappare concessioni alla borghesia, parecchi militanti cominciarono a credere che, per cambiare la società, non fosse necessario fare la rivoluzione. Pensarono che forse sarebbe stato possibile distruggere una dopo l'altra, con la lotta quotidiana, tutte le roccaforti della borghesia. Fu proprio dall'interno del movimento operaio, dai suoi stessi successi, che nacque all'inizio del Novecento l'illusione riformista, cioè l'idea che fosse possibile cambiare il mondo senza rivoluzione. E quella che era cominciata come una semplice deviazione, professata da alcuni socialisti troppo fiduciosi nel futuro pacifico del movimento, finì col trasformarsi, in pochi anni, in una cancrena che avrebbe contaminato tutta la direzione del movimento socialista.

Questa deviazione coincideva con un periodo in cui la borghesia, diventata imperialista, era arrivata ad arricchirsi tanto, grazie alle sue colonie, da poter elargire qualche briciola ai lavoratori delle metropoli e migliorare in una certa misura la sorte di una ristretta aristocrazia operaia. Un secolo prima, quando i bambini delle fabbriche erano pagati a colpi di frusta, nel senso letterale del termine, l'idea riformista non si sarebbe potuta sviluppare. All'inizio del Novecento, quando la classe operaia dei paesi ricchi non conosceva più la miseria e i lavoratori potevano vivere in modo almeno decoroso, queste illusioni trovarono un terreno fertile.

I grandi partiti socialisti dell'inizio del Novecento si erano sviluppati al punto da generare una schiera di deputati, di funzionari stipendiati, di avvocati, di giornalisti, che si erano uniti al movimento operaio non più perché era rivoluzionario, ma perché era portatore di una forma di stabilità sociale per loro stessi. Tra il militante operaio socialista degli anni '80 di fine Ottocento, ed alcuni deputati socialisti alla vigilia della prima guerra mondiale, c'era un mondo. A proposito del militante, uno storico scrive: "(Erano) uomini che avevano il più delle volte meno del necessario per vivere, che lavoravano tutto il giorno, dallo spuntare al tramontare del sole, ai quali ogni ora dedicata all'agitazione ed alla propaganda rubava un'ora di un sonno che non bastava mai, che il potere centrale o locale minacciava costantemente con il carcere o i lavori forzati, la disoccupazione o il confino disciplinare nelle colonie."

Il deputato, l'avvocato, il giornalista socialista potevano diventare uomini di primo piano, che vivevano grazie al partito e non per il partito, e che sarebbero stati pronti a sacrificare le loro idee e la loro classe solo per conservare il loro posto al sole. Quando, nel 1914, il capitalismo precipitò il mondo nella guerra, la maggior parte dei dirigenti del movimento socialista internazionale scelse di conservare il suo piccolo posto, rifiutò il confronto con la borghesia, e si rese disponibile a collaborare per mandare i proletari al macello. E dopo questo primo tradimento, i socialisti avrebbero bevuto il calice fino alla feccia: entrati come ministri nei governi borghesi, si sarebbero presto - in particolare in Germania - incaricati di schiacciare le rivoluzioni che sarebbero sorte dalla guerra.

Questo tradimento avrebbe potuto infliggere una battuta d'arresto allo sviluppo del movimento operaio rivoluzionario: i lavoratori erano stati abbandonati dai loro rappresentanti - non era stato il loro nemico naturale, il loro nemico di classe ad assestare il colpo, ma gli stessi che avrebbero dovuto rappresentarli e difenderli. E se, all'epoca, un piccolo nucleo di militanti non avesse scelto di rimanere sotto la bandiera dell'internazionalismo; se, all'epoca, non fosse esistito in Russia un piccolo partito rivoluzionario, forse noi non saremmo qui questa sera a parlarne.

La rivoluzione russa del 1917

Fortunatamente, questo non è successo: quando l'orrore della guerra ha riattivato la combattività operaia, c'erano militanti rivoluzionari in Russia, per dare prospettive ai lavoratori e portarli verso la conquista del potere. Dimostrarono nei fatti quello che ancora non era mai stato provato. Quando un proletariato determinato ed armato è guidato da un vero partito rivoluzionario, si verifica quello che aveva scritto Blanqui: "ostacoli, resistenze, impossibilità, tutto scompare".

Se la Comune di Parigi era stata un fulmine, la rivoluzione dell'ottobre 1917 in Russia fu un uragano: il proletariato prese il potere, in modo cosciente - e per di più in un paese dove era estremamente minoritario, poiché più del 90% della popolazione russa era contadina - non al livello di una città, ma di un territorio che rappresentava un sesto delle terre emerse del pianeta. La rivoluzione russa dimostrò concretamente che un proletariato cosciente e organizzato, anche se numericamente minoritario, è capace di trascinarsi dietro tutti gli altri strati oppressi della società, compresa la piccola borghesia e i contadini.

La rivoluzione russa è stata il punto più alto dell'ascesa del movimento operaio, cominciata nel 1848. Essa rafforzò l'idea che il proletariato fosse la classe rivoluzionaria del futuro. La rivoluzione russa non assomigliò a nulla di ciò che era stato fatto prima, e a nulla di ciò che è stato fatto dopo, almeno fino a oggi. Questa rivoluzione non si è accontentata di rovesciare un tiranno: ha rovesciato - cosa che nel giugno 1848 non si era riusciti a fare - anche i repubblicani borghesi che avevano sostituito il tiranno. La rivoluzione russa portò alla testa di un paese gli operai armati e iniziò, sotto la loro direzione, la riorganizzazione dell'intera società, su una base diversa da quella della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Sin dal primo giorno, ebbe l'obiettivo di convincere i lavoratori del mondo intero, a realizzare una rivoluzione mondiale, a estirpare il capitalismo da ogni angolo del pianeta. Creò una nuova Internazionale, un autentico partito rivoluzionario mondiale. I suoi dirigenti analizzarono il perché del fallimento della socialdemocrazia, e tracciarono nuove strade per costruire partiti rivoluzionari, dando così speranza e prospettive ai lavoratori di tutto il pianeta.

La reazione della borghesia di fronte a questa rivoluzione mostra di per sé quanto la ritenesse profondamente diversa da tutte le altre: mai, in nessun altro momento della storia, la borghesia mise tanta energia, tanto odio, tanta rabbia nella sua volontà di schiacciare una rivoluzione. Se tutti gli stati belligeranti della guerra del 1914-18 si riconciliarono improvvisamente per cercare di schiacciare la rivoluzione russa, fu proprio perché si trattava di una rivoluzione proletaria, proprio perché aveva creato il primo stato della storia che fosse diretto dagli operai, e perché la borghesia sapeva che la sua salvezza dipendeva dalla distruzione di questo stato.

Oggi sappiamo che la borghesia è quasi riuscita in questo suo compito. La guerra contro il giovane Stato sovietico, la sua quasi totale distruzione, l'isolamento completo nel quale il capitalismo mantenne la rivoluzione russa - a cannonate contro tutti i popoli che si rivoltarono dopo il 1917 - tutto ciò precipitò il giovane stato operaio nella miseria assoluta. E fu questa miseria a consentire la nascita di una casta dirigente, la burocrazia condotta da Stalin, che riuscì ad esercitare il potere contro la classe operaia.

Non discuteremo questa sera dello sviluppo di questa burocrazia, né dei processi che l'hanno permesso. Ma diciamo che la grande offensiva condotta su scala internazionale dal proletariato tra il 1917 ed il 1920 si è conclusa con un fallimento. In decine di paesi la classe operaia ha lottato, fino a vere rivoluzioni, in particolare in Germania, in Finlandia, in Ungheria. E l'umanità non è mai stata così vicina ad una rivoluzione operaia su scala mondiale. Ma in nessun paese, fuori dalla Russia, il proletariato trovò per guidarlo in questa offensiva un partito simile al partito bolscevico, e l'estensione della rivoluzione fuori dalla Russia fu un fallimento. Dopo questa sconfitta storica del proletariato, la borghesia ha potuto riprendere l'offensiva - e ancora oggi ne stiamo pagando le conseguenze.

Lo stalinismo, nemico del movimento operaio

Sin dal momento in cui lo stalinismo fece gravare la sua cappa di piombo sul movimento operaio, la situazione politica del proletariato è radicalmente cambiata.

Non che il proletariato abbia smesso da allora di svilupparsi su scala internazionale, non che il suo peso nella società abbia smesso di crescere - al contrario. Ma il fatto nuovo è stato che, a partire da allora, i partiti che si riferivano alla classe operaia smisero progressivamente di lottare per la sua emancipazione. Dall'epoca del Manifesto comunista, si era sviluppata l'idea che un partito rivoluzionario non solo dovesse essere profondamente radicato nella classe operaia, ma che i suoi interessi non potessero essere diversi da quelli dell'insieme del proletariato. Prima la decomposizione riformista della socialdemocrazia, e poi lo sviluppo dello stalinismo, hanno dato vita a partiti che certamente erano operai per la loro composizione sociale, ma che ormai avevano interessi differenti da quelli del proletariato; peggio ancora, erano pronti a strumentalizzare il proletariato per servire gli interessi di altri strati o classi sociali.

Qualunque siano stati i loro errori, le loro esitazioni, i militanti dell'Ottocento erano militanti operai - non sempre per la loro origine sociale, ma sempre per i loro obiettivi. Anche i primi riformisti dell'inizio del Novecento erano, per la maggior parte, militanti sinceri che l'evoluzione del movimento operaio e del capitalismo stesso avevano sviato, convincendoli che forse esistessero strade pacifiche per il socialismo.

I dirigenti della socialdemocrazia fin dal 1914, e dello stalinismo dalla fine degli anni venti, erano di natura ben diversa. La socialdemocrazia era passata armi e bagagli nel campo della borghesia al momento della dichiarazione di guerra; i suoi dirigenti avevano ancora avuto la possibilità, dopo il 1917, di tornare sui loro passi e raggiungere il campo della rivoluzione russa. Coloro che non lo avevano fatto - come Léon Blum, in Francia - avevano chiaramente scelto di rimanere nel campo della borghesia; e diventarono molto rapidamente onesti servi dell'ordine borghese, reprimendo gli scioperi, conducendo le guerre coloniali, combattendo il movimento operaio rivoluzionario, anche con le armi se necessario.

Una corrente controrivoluzionaria

Lo stalinismo in fin dei conti ha svolto un ruolo molto più dannoso, nella misura in cui i suoi tradimenti si sono nascosti dietro la facciata di una tradizione rivoluzionaria di cui si pretendeva il diretto erede.

Fin dagli anni trenta, i militanti sorti dalle file del proletariato trovarono solo gli stalinisti per convincerli, educarli, condurli alla lotta; cioè militanti che, dietro la bandiera rossa, la falce e martello, e la difesa incondizionata dell'Unione sovietica, in realtà difendevano Stalin, la sua politica e la sua casta di burocrati. La burocrazia sovietica sapeva perfettamente di essere al potere solo perché la rivoluzione mondiale era fallita, di essere cresciuta solo grazie alla demoralizzazione e alla smobilitazione del proletariato russo. Ma cosa sarebbe successo se il fuoco della rivoluzione mondiale si fosse riacceso altrove? Ciò forse avrebbe dato al proletariato sovietico la piccola scintilla che sarebbe bastata a far rinascere la fiamma, e lo avrebbe spinto a spazzar via Stalin e la sua cricca. Fu appunto questo timore a spingere Stalin a contrastare ogni possibilità di ripresa del movimento rivoluzionario nel mondo. Progressivamente, gli stalinisti sostituirono le idee rivoluzionarie del comunismo internazionale con idee ben diverse. Insegnarono ai loro militanti ad usare la disonestà, le menzogne e la violenza per allontanare le masse dalle battaglie decisive. E per essere sicuri che i militanti che sarebbero sorti nel proletariato non avessero nessuna possibilità di avvicinarsi ad altre idee, non tollerarono, per decenni, nessuna opposizione rivoluzionaria alla loro sinistra - ricorrendo all'intimidazione, alle manganellate, e presto agli omicidi. In Francia, negli Stati Uniti, in Italia, i militanti trotskisti furono sistematicamente sottoposti a pestaggi. In Spagna, e più tardi in Indocina, furono assassinati. E anche in Unione Sovietica un'intera generazione di rivoluzionari, coloro che avevano vissuto la rivoluzione, fu implacabilmente sterminata.

Situazioni rivoluzionarie tradite dallo stalinismo

Alcune situazioni esplosive, o situazioni veramente rivoluzionarie, si sono sviluppate tra gli anni trenta e i giorni nostri. In tutte queste situazioni, la classe operaia avrebbe avuto bisogno di un partito che svolgesse il ruolo già svolto dal partito bolscevico in Russia nel 1917: analizzare ogni giorno la situazione da rivoluzionari, mettere in guardia i lavoratori contro i partiti borghesi, insegnare loro a diffidare di tutti coloro che pretendevano di agire al loro posto, indurli a prendere le armi oppure a non abbandonarle laddove le avessero già prese, prepararli all'idea che avrebbero dovuto assumere il potere attraverso i loro organi di direzione, e tracciare chiaramente la via che avrebbe condotto alla conquista del potere. Invece, al posto di partiti "rivoluzionari", i lavoratori hanno avuto solo partiti stalinisti che li hanno messi a rimorchio di altre forze, che hanno sabotato le loro battaglie, che li hanno privati di ogni prospettiva politica autonoma, e in breve, che hanno ostacolato il più possibile le rivoluzioni.

Già durante la rivoluzione cinese del 1925, il comunismo internazionale incatenò il giovane partito comunista cinese ai nazionalisti borghesi; nel 1933, gli stalinisti rifiutarono di condurre la lotta contro il nazismo, minimizzarono il pericolo mortale rappresentato da Hitler, e spiegarono agli operai che era meglio combattere i socialisti che i fascisti; nel 1936, in Spagna, mentre spingevano gli operai armati a confluire in un Fronte popolare che si faceva carico di difendere la repubblica borghese, torturavano e uccidevano i militanti rivoluzionari. Nello stesso momento, dall'altra parte dei Pirenei, il capo stalinista Maurice Thorez spiegava agli operai, in pieno sciopero generale, che occorreva "saper finire uno sciopero"; così salvò la pelle alla borghesia, convincendo i lavoratori in lotta a fidarsi di Léon Blum, quello che si definiva un "gestore onesto del capitalismo". Nel frattempo, alcune migliaia di chilometri più ad est, nei campi di concentramento sovietici, la gentaglia stalinista massacrava con le mitragliatrici migliaia di militanti trotzkisti.

In pochi anni, lo stalinismo ridusse a nulla tutto ciò che un centinaio di anni di costruzione del movimento operaio aveva pazientemente costruito: all'internazionalismo proletario sostituì il nazionalismo, facendo di nuovo cantare la Marsigliese e sventolare la bandiera tricolore nelle manifestazioni operaie. All'assoluta indipendenza organizzativa del proletariato, idea centrale dell'intera vita militante di Marx, Engels e Lenin, sostituì un penoso atteggiamento servile, accodando di volta in volta la classe operaia quando ai nazionalisti, quando ai socialdemocratici. All'idea fondamentale che l'emancipazione del proletariato si sarebbe ottenuta solo con la lotta rivoluzionaria, sostituì il parlamentarismo, fino a non avere più nulla da proporre agli operai tranne il "voto giusto" alle elezioni, cioè votare gli stalinisti quando si candidano, o all'occorrenza votare i socialisti.

Dopo avere reso impossibile ogni resistenza rivoluzionaria alla seconda guerra mondiale, gli stalinisti alimentarono il mito di una guerra giusta, che sarebbe stata quella della democrazia contro il fascismo: omettendo accuratamente di ricordare che il campo della "democrazia" era composto da paesi imperialisti, che tenevano sotto il loro giogo milioni di operai e centinaia di milioni di schiavi coloniali.

Finito il secondo conflitto mondiale, gli stalinisti misero tutte le loro forze al servizio del ristabilimento delle economie disastrate dalla guerra, nel rispetto dell'ordine capitalista. Mentre Stalin discuteva fraternamente la spartizione del mondo con Churchill e Roosevelt, i dirigenti stalinisti partecipavano ovunque a governi di unione nazionale, con l'obiettivo non di spingere gli operai a rovesciare questo sistema che aveva appena sterminato cento milioni di esseri umani, bensì di costringerli a produrre, a tacere, a non rivendicare e a non scioperare.

Le rivoluzioni anticoloniali : un'occasione persa

Dopo la Seconda Guerra mondiale, una nuova ondata d'instabilità scosse il capitalismo. Colpì relativamente poco i paesi imperialisti, in parte grazie agli stalinisti e alla loro politica di collaborazione di classe, ma anche, ricordiamolo, perché le potenze imperialiste scelsero di schiacciare sotto le bombe, in modo preventivo, le città operaie della Germania, prima di aggiungere la battuta finale al terrore contro i popoli, sganciando la bomba atomica su due città giapponesi.

Le regioni del mondo colpite da questa nuova ondata rivoluzionaria furono invece gli imperi coloniali. Questi paesi - in particolare la Cina, il Vietnam, e poi quelli del Medio Oriente e del Nord Africa - erano ancora in prevalenza a economia rurale. Ma lo sviluppo del capitalismo aveva prodotto anche in queste regioni una classe operaia che, anche se non aveva niente a che vedere con ciò che esisteva in Francia o in Inghilterra, aveva però un'importanza paragonabile a quella della classe operaia russa prima del 1917.

I dirigenti di queste rivoluzioni anticoloniali, a cominciare da Mao e Ho Chi Minh, erano stati educati alla scuola stalinista. Essa li aveva trasformati in nazionalisti, cioè in militanti il cui unico obiettivo era di lottare per la liberazione del loro paese - in altre parole, per lo sviluppo di una borghesia nazionale, autonoma nei confronti dell'imperialismo. E non è il crimine minore dello stalinismo: Mao, Ho Chi Minh e i loro compagni erano all'inizio militanti veri, rivoluzionari autentici, coraggiosi e impegnati. Attorno a loro, c'erano migliaia di "Varlin", sorti dal proletariato. Ma anziché trovare la strada di un Marx, trovarono quella di Stalin e dei suoi servi, che li fuorviarono e li rimandarono in grembo alla propria borghesia.

All'epoca, il credito delle idee comuniste era ancora tale che, a un dirigente nazionalista desideroso di trascinare le masse, conveniva sempre travestirsi da comunista, usarne la bandiera ed usurparne il nome, benché la sua politica voltasse le spalle alle idee marxiste. Tutti questi uomini, in un modo o nell'altro, costruirono "fronti di liberazione nazionale", un nome che esprime perfettamente ciò che volevano essere: organizzazioni di unione nazionale, di collaborazione di classe, e in quanto tali l'antitesi di organizzazioni autonome del proletariato.

Questi uomini rifiutarono consapevolmente di basare le loro organizzazioni sui rappresentanti della classe operaia, anche solo in quanto semplici fanti della loro rivoluzione: avevano fin troppo paura che una classe operaia mobilitata, armata e vittoriosa non si fermasse alla decolonizzazione, ma si rivolgesse anche contro la borghesia nazionale del proprio paese. Erano stati a una buona scuola! Stalin, che aveva un lontano passato di bolscevico, sapeva perfettamente di cosa era capace la classe operaia, quando era chiamata alla lotta. E così, un secolo dopo il Manifesto, che pure aveva chiaramente risolto la questione, questi dirigenti, pur continuando ad appellarsi all'eredità di Marx, cominciarono a teorizzare l'idea che i contadini rappresentassero la nuova classe rivoluzionaria. Certamente non avevano completamente torto: i contadini poveri di questi paesi si comportarono infatti da rivoluzionari, con tutto il coraggio e l'eroismo che ciò significa. Ma tra l'essere rivoluzionario e l'essere comunista, una differenza c'è. Il fatto di scegliere una base contadina diede ai dirigenti nazionalisti del Terzo Mondo le masse di cui avevano bisogno per combattere l'imperialismo, ma si trattava di masse che non rischiavano di mettere in discussione la proprietà borghese. Nel 1917, il Partito bolscevico condusse la classe operaia russa a prendere il potere da sola; trentadue anni dopo, nel 1949, il cosiddetto Partito comunista di Mao prese il potere in Cina in nome dell'unione tra tutte le classi. Il suo primo decreto ebbe l'obiettivo di ordinare "agli operai di rimanere dietro ai macchinari".

Durante i decenni 1950 e 1960, il mondo capitalista fu scosso da importanti movimenti di lotta. Dalla Cina al Vietnam, da Cuba all'Egitto, dall'Indonesia alla Palestina, nuove organizzazioni di combattimento si sollevarono ovunque, con o senza l'etichetta comunista, ma mai sotto la bandiera del proletariato, sempre assolutamente ostili all'idea che il proletariato potesse e dovesse organizzarsi da solo. Queste organizzazioni attrassero decine di migliaia di giovani ribelli, spesso venuti dalle zone popolari delle città, e li spinsero fuori dalle città, alla macchia in luoghi sperduti, nella sierra, nella giungla, dovunque purché fosse lontano dalle città, lontano dal proletariato, in modo da non potere né influenzarlo né essere influenzati da esso. Generazioni di giovani proletari, pronti a sacrificarsi per la rivoluzione, furono così portate fuori strada.

Il tradimento dell'intellighenzia

Sarebbe potuta andare diversamente? Questi giovani proletari, la cui coscienza si stava appena risvegliando, avrebbero potuto capire che coloro che li dirigevano non erano realmente comunisti? Forse avrebbero potuto beneficiare dell'aiuto dell'intellighenzia, di intellettuali marxisti che avrebbero potuto misurare e spiegare l'abisso che separa lo stalinismo, nelle sue varie vesti nazionaliste, dal marxismo? Era improbabile: all'epoca, la stragrande maggioranza degli intellettuali aderì a questi tradimenti, finendo addirittura col teorizzare l'idea che le concezioni di un Mao o di un Castro potessero sostituire efficacemente quelle di Marx e di Lenin.

Ed anche se non fa certo piacere constatarlo, molte correnti trotzkiste, entusiasmate dall'importanza delle rivolte del Terzo Mondo, ma incapaci per opportunismo di differenziarsi dalle organizzazioni nazionalistiche, finirono anch'esse con l'attribuire qualità bolsceviche a queste organizzazioni, oppure con lo sciogliervisi dentro.

È sorprendente constatare, a distanza di anni, fino a che punto l'intellighenzia si è adattata alle varie fasi appena descritte: nell'Ottocento, gli intellettuali furono portati dall'onda crescente del movimento operaio, il che ha prodotto figure come Marx, Rosa Luxemburg, Lenin o Trotzki. Fu proprio questo a permettere di attrarre intellettuali del mondo artistico e letterario, come Anatole France o Gorki.

Successivamente, gli intellettuali si sono adattati senza batter ciglio al regresso del movimento operaio. Perfino gli artisti, come in Francia Aragon, Picasso o Eluard, autore tra l'altro di questi versi immortali del 1950 :

E Stalin per noi è presente per domani,

E Stalin dissipa oggi la disgrazia,

La fiducia è frutto del suo cervello d'amore.

Paul Eluard, Ode a Stalin

Quando la fiducia nel cervello d'amore di Stalin si smorzò, dopo il 1956, gli intellettuali si rivolsero a Mao e a Che Guevara, e proclamarono che la raccolta di stupidaggini del piccolo libro rosso di Mao era il nuovo Manifesto Comunista. E si poté vedere, in Francia, l'allora maoista Serge July chiamare dalla piazza della Sorbona a costruire basi rosse di guerriglia contadina... nella zona del Massiccio centrale francese. E Jean-Paul Sartre scrisse sul suo giornale, alcuni anni dopo i milioni di morti della "rivoluzione culturale" in Cina: "Al contrario di Stalin, Mao non ha commesso nessuna colpa". Mentire ai lavoratori, cioè sottovalutarli, ecco l'unica cosa di cui sia stato capace il fior fiore degli intellettuali di sinistra dei paesi ricchi nei decenni recenti.

Per anni sono passati come un rullo compressore sulla società, prima per schiacciare le lotte del proletariato, poi per impedirle e per ribadire che il proletariato non aveva più nessun ruolo politico da giocare. Un rullo compressore che ha finito per raggiungere il suo scopo: cancellare dalla mente del proletariato ciò che vi aveva fissato il movimento operaio degli inizi. Di nuovo, alla fine degli anni settanta, il proletariato non era più in grado di considerarsi qualcosa di diverso da una forza di appoggio alle lotte di altri strati sociali. Paradossalmente, forse la crescita delle lotte operaie degli anni ottanta è stata il segno di questa regressione della coscienza. Quando nel 1980 in Polonia, ad esempio, si espressero forze politiche ostili al dominio dell'Unione Sovietica su questo paese, poterono appoggiarsi su un potente sciopero generale senza rischiare che il movimento andasse oltre. In mancanza di una coscienza della necessità dell'indipendenza politica, non c'era il rischio che la classe operaia polacca potesse lottare per i propri interessi, ed essa divenne l'efficace braccio destro del sindacato cattolico e reazionario Solidarnosc.

Sessant'anni di arretramenti e di tradimenti del movimento operaio avevano distrutto la coscienza del proletariato.

Il proletariato oggi

E siamo al periodo attuale.

Il fatto che la classe operaia non abbia più peso, a livello politico, permette a tutti i difensori del capitalismo di proclamare la sua scomparsa, non solo politicamente ma anche, per quanto assurdo sia, socialmente. Quante volte ogni giorno si sente dire che "la classe operaia non esiste più", che si sarebbe aperta l'era della "società dei servizi" del periodo post-industriale? Si pone quindi la questione di intendersi su ciò che il proletariato rappresenti nella società odierna.

Il proletariato, classe maggioritaria nel mondo

La risposta è semplice: in quanto forza sociale, il proletariato mondiale è oggi infinitamente più potente e più sviluppato di quanto non lo sia mai stato - e oramai non solo a livello dei paesi ricchi.

La tendenza generale del capitalismo è stata, come aveva previsto Marx, di trascinare le altre classi verso un'irrimediabile declino. Artigiani, commercianti, piccoli proprietari, lavoratori autonomi, certo non sono scomparsi del tutto, ma rappresentano oggi solo una piccola minoranza del mondo del lavoro, incapaci di reggere la concorrenza della grande industria. Per fare solo l'esempio della Francia, nel 1856 i lavoratori autonomi rappresentavano più di una persona attiva su due, e oggi ne rappresentano meno di una su dieci. In fin dei conti, il capitalismo ha espropriato molti più piccoli proprietari di quanti ne potrà espropriare una rivoluzione comunista!

Per quanto riguarda la questione contadina, nei paesi ricchi è superata da molto tempo: gli agricoltori ormai rappresentano solo il 3% della popolazione attiva in Francia, e l'1,4 % negli Stati Uniti. Certo, nel cosiddetto terzo mondo esiste ancora un'immensa popolazione di contadini poveri - un miliardo e trecento milioni di uomini nel mondo lavorano solo con la forza delle loro braccia. Ma nel corso dei decenni, il numero dei contadini in proporzione alla popolazione mondiale ha proseguito a diminuire inevitabilmente. E il fenomeno si sta accelerando: il numero di abitanti delle città, su scala mondiale, leggermente inferiore al 30% nel 1950, ha superato il 50% nel 2007.

In tutti i paesi che hanno conosciuto uno sviluppo industriale importante, questo esodo rurale è più massiccio che non altrove: in Brasile, tra il 1985 e il 2009, la proporzione di contadini nella popolazione attiva è passata dal 29% al 19%. In Cina, dal 60 al 44%.

Certo, questa tendenza all'urbanizzazione non significa uno sviluppo automatico del proletariato industriale. Le immense megalopoli, le baraccopoli gigantesche del Messico, dell'India, dell'Africa, racchiudono più lavoratori precari costretti a fare mille piccoli lavori, disoccupati e a volte mendicanti morti di fame, che lavoratori dipendenti dell'industria; e nessuno può prevedere da che parte questo sottoproletariato si schiererà nelle future insurrezioni. E' sicuro invece che la tendenza generale dell'evoluzione del capitalismo porta alla diminuzione assoluta del numero dei contadini nel mondo.

Davvero il proletariato - cioè tutti i lavoratori dipendenti - è sul punto di diventare, in assoluto, la classe più numerosa del pianeta.

Il proletariato rappresentava nel 2005, secondo uno studio dell'Ufficio Internazionale del Lavoro (BIT), circa due miliardi di esseri umani: il BIT contabilizzava allora 600 milioni di operai d'industria, 450 milioni di operai agricoli, e circa un miliardo di dipendenti dei servizi.

Basandosi sulla cifra, comunemente riconosciuta valida, di una popolazione attiva mondiale di circa tre miliardi di persone, il proletariato ne rappresenta quindi i due terzi, o la metà se si conta solo il proletariato urbano. Il che non è tanto male per una classe presunta scomparsa.

La maggioranza dei detrattori del marxismo si basa sul fatto che sono i lavoratori dipendenti del settore dei servizi a rappresentare la maggioranza dei lavoratori, e che il proletariato industriale tende a diminuire. Anche se fosse vero, questo fatto in realtà non proverebbe granché. Nondimeno costituisce un'evidente falsità.

Una recente relazione dell'ONU rileva che "si intende spesso dire che l'attività industriale declina e che ora siano i servizi a prevalere sulla produzione". Gli autori della relazione, con un certo buon senso, relativizzano questa conclusione facendo osservare: "se i servizi svolgono un ruolo sempre più importante, l'industria, in quanto fonte di ogni bene materiale, rimane l'elemento chiave dell'economia". E la relazione dimostra che i paesi ricchi sono gli unici veramente colpiti dal potenziamento dell'economia dei servizi. I paesi del Terzo Mondo conoscono, al contrario, un netto aumento dell'attività industriale. In questi paesi, dove trent'anni fa ancora esisteva solo un proletariato industriale trascurabile, le cose sono cambiate e qualche volta molto.

La classe operaia nei paesi del Terzo Mondo

Alcuni numeri: negli ultimi trent'anni, secondo il BIT, il numero di lavoratori industriali nelle Filippine è raddoppiato, passando da 2,6 a 5 milioni; stessa cosa in Messico, da 6,5 a 11,2 milioni; in Indonesia è addirittura triplicato, passando da 6,7 a 19,2 milioni.

E ovviamente è la Cina a rappresentare - come numero assoluto di operai, se non come percentuale - l'evoluzione più spettacolare: l'industria in Cina impiegava 20 milioni di lavoratori nel 1960, 77 milioni nel 1980, il che già non era una cosa da nulla. Ma oggigiorno la cifra sarebbe vicina ai 210 milioni di operai! È il doppio di quella di tutti i paesi ricchi insieme.

Fin dagli anni '70, si assiste ad una vera esplosione dell'industria nei paesi poveri. Il proletariato di questi paesi, che prima svolgeva solo la funzione di facchino o di bracciante nella divisione internazionale del lavoro, ha fatto conoscenza con le fabbriche.

La caratteristica comune di queste fabbriche del Terzo Mondo è di appartenere il più delle volte al settore dell'industria dei beni di consumo, tessili o elettronici, e di essere ben poco meccanizzate. Perché i padroni dovrebbero investire in macchinari perfezionati, visto il prezzo della manodopera? Ultimamente, numerosi articoli e indagini hanno descritto nei particolari la vita nelle fabbriche informatiche della Cina, o in quelle tessili del Bangladesh o dell'Egitto. Tutte queste testimonianze mostrano condizioni di lavoro e di vita che non sono tanto diverse rispetto a quelle degli operai del periodo della rivoluzione industriale. Con in aggiunta la vergogna che non siamo più nel 1820, ma nell'epoca della conquista spaziale e dell'ingegneria genetica.

Dalle zone franche alle fabbriche giganti dell'Asia

Fra le "fabbriche-galere" dei paesi poveri, troviamo ad esempio tutte quelle stabilitesi nelle zone franche, piccoli paradisi per capitalisti moderni dove non vige la legge, dove non esiste il diritto del lavoro, dove i proprietari non pagano tasse. Ce ne sono oggi 850, diffuse un po' dovunque in Asia, in Sudamerica, o in Nordafrica, che impiegano 30 milioni di operai. Marche famose come Gap, Zara, Nike, Pierre Cardin, vi sfruttano in santa pace operai e soprattutto operaie. La giornalista terzomondista Naomi Klein scrive, a proposito di queste zone franche: "A prescindere dal luogo dove sono stabilite, c'è una somiglianza impressionante tra le testimonianze dei lavoratori: la giornata di lavoro è lunga - quattordici ore in Sri Lanka, dodici ore in Indonesia, sedici in Cina meridionale, dodici nelle Filippine. La stragrande maggioranza dei lavoratori sono donne, sempre giovani, che lavorano sempre per agenzie o subappaltatori. La paura è onnipresente in queste zone".

La paura non è solo sul posto di lavoro: questi luoghi sono zone fuori legge, a tal punto che la criminalità vi raggiunge vertici inconcepibili, in particolare contro le donne. Un esempio ne è la spaventosa storia della zona franca di Ciudad Juarez, in Messico, dove nel corso degli ultimi quindici anni sono state rapite, stuprate ed assassinate tra le 2000 e le 2500 operaie. E questo nell'impunità totale, giacché al governo messicano, come ai capitalisti che vi ingrassano, non interessa assolutamente nulla della sorte di alcune migliaia di operaie di 18 o 20 anni. Non c'è da stupirsi di questa indifferenza, se si pensa che - come ha riferito sconvolto un giornalista - in alcune fabbriche le donne devono ogni mese fornire al caporeparto la prova che non sono incinte, pena il licenziamento!

Allora forse in queste regioni gli assassini saranno anche delinquenti di zona, ma i veri responsabili sono coloro che rendono possibile una tale miseria materiale e morale: e questi siedono, in giacca e cravatta, nei consigli di amministrazione dei più grandi trusts del mondo!

Una delle più grandi zone industriali del pianeta è stata messa, in questi mesi, sotto i riflettori dell'opinione pubblica mondiale dalla serie di scioperi che vi si sono svolti. Si tratta della città di Shenzhen, in Cina, una città che contava 30.000 abitanti nel 1976, e oggi sedici milioni. È qui che si trovano le fabbriche del gruppo Foxcom, subappaltatore taiwanese di tutti i giganti dell'informatica, un gruppo da 200.000 operai. La Foxcom produce in particolare gli IPhone, gli IPad e le Neufbox. La Foxcom a Shenzen è sinonimo di sindacati vietati, di stipendi da fame, di giornate di lavoro da dodici a quattordici ore, spesso sei giorni su sette, e di un piccolo scandalo scoppiato l'anno scorso quando diciotto lavoratori si sono suicidati. Questi suicidi non sono sembrati affatto comprensibili al padrone della Apple Steve Jobs, un miliardario presentato come persona "cool" perché non si mette mai la cravatta: dopo avere visitato le fabbriche della Foxcom, ha dichiarato che tutto sommato era "un posto piuttosto simpatico"!

Bisogna essere onesti: dopo questi avvenimenti, la Apple ha costretto la Foxcom a prendere provvedimenti contro i suicidi degli operai. Detto fatto: la Foxcom ha fatto sistemare reti di sicurezza nelle sue fabbriche!

Poco lontano da lì, anche le stampanti Brother hanno creato un posto "piuttosto simpatico". È significativa l'intervista di Li, una giovane cinese di sedici anni: "la mia vita è la fabbrica", dichiara. Lei e i suoi 5000 colleghi lavorano da dodici a quattordici ore al giorno, sei giorni alla settimana, davanti a gigantesche catene di montaggio, con divieto di parlare. Li mangia tre volte al giorno in fabbrica e dorme 355 notti all'anno nei dormitori della fabbrica, in camere da dieci. Tutto questo per cinquanta euro al mese.

Ecco le condizioni di vita dei proletari del Terzo Mondo. Eppure la Cina non è il paese dagli operai più malpagati: i recenti scioperi svoltisi a Shenzhen hanno spinto alcuni capitalisti occidentali a trasferirsi verso paesi a costi ancora più bassi, come il Vietnam o il Bangladesh...

La responsabilità dell'imperialismo

Sia detto per inciso, uno degli aspetti che più colpiscono nella propaganda della borghesia, qui in Europa, è di far passare paesi come la Cina come nazioni espansionistiche, che ad ogni costo cercherebbero di imporre condizioni di lavoro medievali, per rubare posti di lavoro agli operai europei o americani. Invece i principali responsabili di questa politica sono i capitalisti dei paesi ricchi, che forse fanno finta di chiudere gli occhi su ciò che avviene in queste fabbriche, ma che in realtà lo sanno perfettamente, perché sono loro stessi ad imporlo! Un esempio? È una strategia apertamente teorizzata dal gruppo Disney, che i cervelloni della strategia hanno chiamato "cut and run", il che si potrebbe tradurre con "brucia i ponti e fuggi". Il gruppo Disney, ben lontano dall'universo di Topolino, Minnie e Pluto, fa fabbricare i suoi prodotti derivati in fabbriche del Bangladesh, dove il salario minimo - raramente rispettato - è di 25 dollari al mese. Un'associazione umanitaria racconta: "per otto anni, le operaie della fabbrica di Shah Makhum hanno lavorato in condizioni spaventose: dalle 8 alle 22 di sera, oppure a mezzanotte, ogni giorno, in un silenzio imposto con soprusi fisici, senza alcun giorno di ferie né diritto ad un congedo per maternità". Ma nel 2001 le operaie si sono ribellate, esigendo che queste condizioni disumane finissero - in realtà, chiedevano solo un giorno di riposo settimanale, congedi per maternità e salari conformi alla legge. Improvvisamente il datore di lavoro, la Disney, ha interrotto tutti gli ordini ed è scomparso. È questo il "cut and run": appena gli operai rivendicano, appena provano a organizzare un sindacato, le ordinazioni si fermano e la fabbrica non può fare altro che chiudere.

Un'altra testimonianza, di un operaio vietnamita, la dice lunga sul fatto che sono davvero i gruppi capitalisti dei paesi imperialisti a spingere salari e condizioni di lavoro verso il basso. È stata raccolta nella zona industriale di Thang Long, vicino ad Hanoi. Fra i 50.000 operai della zona, 11.000 lavorano alla Canon, il cui direttore giapponese Shinji Onishi esclama con entusiasmo: "È il posto migliore del mondo per produrre a basso costo!" Un operaio della Canon, Hien, testimonia: "Le fabbriche straniere vanno bene per un breve periodo, quando si è giovani e forti. Siccome si sta in piedi tutto il giorno, si soffre presto di disturbi della circolazione del sangue, tanti hanno problemi di salute. Non si può mai fermarsi, le mani si stancano. Fortunatamente, dopo trent'anni, si può andare a lavorare nelle fabbriche vietnamite, dove il ritmo è meno rapido".

Da due anni, in Cina, in Bangladesh, in Vietnam e in molti altri paesi come l'Egitto, gli operai si ricollegano a tradizioni di lotta da tempo dimenticate. A Shenzhen, gli operai della Foxcom e quelli della Honda hanno ottenuto aumenti di salario del 20%; in Bangladesh, dopo sommosse vere e proprie nei quartieri degli operai tessili, i padroni sono stati costretti ad aumentare il salario minimo.

Questo gigantesco proletariato del Terzo Mondo impara molto rapidamente a lottare. La sua esistenza stessa rafforza straordinariamente il campo del proletariato, il nostro campo. Per questo dobbiamo lottare con tutte le nostre forze contro i pregiudizi dei lavoratori di qui, che li vedono come avversari e concorrenti e non per quello che sono: i nostri compagni, i nostri fratelli e le nostre sorelle di lotta, dai quali in fatto di combattività è probabile che avremo tante cose da imparare in questi anni.

Il proletariato dei paesi ricchi

Le metropoli imperialiste fanno da pretesto a sociologi, economisti e commentatori vari per rimuginare l'idea della "scomparsa del proletariato". Certo, per noi non si tratta di negare né la relativa deindustrializzazione e le delocalizzazioni, né l'aumento considerevole del peso dei servizi in questi paesi. Ma questo significa che il proletariato sia scomparso, o che non vi rappresenti più un'enorme forza sociale? Ovviamente, no.

La classe operaia industriale

Innanzitutto, la diminuzione del numero di lavoratori nel settore industriale, nei paesi ricchi, non è così enorme come si vorrebbe far credere: questa diminuzione oscilla, secondo i paesi, tra il 5 ed il 18% dal 1980 al 2009 . L'ultima cifra riguarda gli Stati Uniti, il che non toglie che questo paese conti ancora 24 milioni di operai di fabbrica! In Francia, nello stesso periodo, la diminuzione è stata pari al 5%, essendo il numero dei posti di lavoro industriali passato da 6,1 a 5,7 milioni.

Inoltre, queste cifre sugli organici dell'industria sono da prendere con le molle. Le statistiche contribuiscono fortemente a sottovalutare il vero numero dei lavoratori di questo settore, e i padroni fanno la loro parte, con l'esternalizzazione di tante mansioni che prima erano gestite dalle stesse fabbriche. Così, in passato, i lavori di manutenzione, di controllo, di pulizia, di logistica, ecc., toccavano ai dipendenti della fabbrica, che facevano parte dei dipendenti dell'industria. Oggi questi compiti sono eseguiti da appaltatori o subappaltatori, i cui dipendenti non hanno cambiato il lavoro ma solo la tuta, e tuttavia sono considerati come dipendenti dei servizi! Naturalmente, è impossibile sapere quanti lavoratori dell'industria escono così dalle statistiche, ma probabilmente ci possiamo fidare di un portavoce della Federazione padronale delle industrie metallurgiche della Gran Bretagna, che alcuni anni fa dichiarava al Financial Times: "dando in appalto le sue attività (...) l'industria manifatturiera crea gran parte dell'industria dei servizi, e l'industria potrebbe rappresentare fino al 35% dell'economia - invece del 20% generalmente accettato - se fosse misurata tramite definizioni statistiche adeguate".

Ovviamente, il proletariato non si limita agli operai dell'industria; ma è assurdo e menzognero sostenere che il proletariato industriale sia scomparso o sul punto di scomparire. Certamente, in paesi come la Francia, alcuni settori industriali sono scomparsi: la siderurgia o il tessile, ad esempio. E non è escluso che altri possano scomparire domani. Certamente, grandi gruppi capitalisti hanno completamente trasformato i loro metodi manageriali, per non dover più assumersi la responsabilità di operai, come la Alcatel, il cui dirigente Serge Tchuruk si era vantato di costruire "un gruppo senza fabbriche". Ci è quasi riuscito, ma semplicemente perché quello che gli ex operai della Alcatel non producono più è ormai prodotto da altri nelle ditte d'appalto.

Lo sfruttamento, in Europa come in Giappone o negli Stati Uniti, esiste molto concretamente per milioni e milioni di operai di fabbrica. Ci sono da un lato le grandi fabbriche, i grandi gruppi della chimica, dell'automobile, dove imperano ritmi estenuanti. Ma per quanto difficili siano queste fabbriche, non sono le peggiori, perché vi si trova ancora un minimo di organizzazione, di militanti sindacali che riescono a frenare parzialmente la cupidigia padronale. In Francia una parte consistente del tessuto industriale - almeno la metà degli operai - si compone di piccole fabbriche, mattatoi industriali dove perdere un occhio per un infortunio non è un evento improbabile, falegnamerie industriali che producono scatole per formaggi, dove nessun operaio ha tutte le dita, fabbriche dove le operaie insacchettano insalate alle tre del mattino a una temperatura di quattro gradi, ecc... Per gran parte del proletariato di questo paese non esistono sindacati, e per i loro padroni il Diritto del Lavoro è qualcosa che può solo far da zeppa a un tavolino.

Gli operai, in Francia, invecchiano più rapidamente, muoiono prima, sono più spesso malati. I loro bambini sono in condizioni di salute peggiori dei bambini dei quadri - per non parlare di quelli dei ricchi - e la stragrande maggioranza di loro non farà studi superiori.

Forse i giornalisti della stampa borghese non li vedono mai - eppure basterebbe prendere il metro o l'autobus la mattina presto per vederli, questi operai che vanno al lavoro già sfiniti dalla stanchezza, questi immigrati pakistani che all'alba tornano da una notte passata a fare le pulizie negli aerei di Roissy, o queste donne africane che alla stessa ora partono per fare le pulizie negli uffici. Probabilmente non li vedono, e non li vedranno mai, perché fa comodo non vederli. Viene in mente un verso del poeta Jacques Prévert, nel quale si parlava "di quelli che, in qualche buco, producono le penne con le quali altri, all'aria aperta, scriveranno che tutto va per il meglio" (Jacques Prévert, Tentativo di descrizione di un banchetto a Parigi, 1931).

Gli impiegati, una parte del proletariato

Per quanto riguarda il ritornello, sentito tante volte, per cui gli impiegati dei servizi non farebbero parte del proletariato, è un'affermazione assurda.

Pensare che solo gli operai di fabbrica siano proletari rivela come minimo una lettura molto superficiale di Marx, che non ha mai detto una cosa del genere. Oppure, ancora peggio, serve per attribuirgli una caricatura delle sue idee per poterle demolire meglio, dato che gli avversari di Marx gli fanno dire che solo una frazione dei lavoratori dipendenti - gli operai di fabbrica - sarebbe potenzialmente rivoluzionaria. Si immagina facilmente il passo successivo: essendosi ridotta questa frazione dei lavoratori dipendenti, i marxisti in un certo senso sarebbero stati superati dalla storia.

Questo argomento non solo è una mistificazione della realtà sociale, giacché, l'abbiamo detto, la popolazione operaia continua a crescere su scala mondiale. Ma altera anche le idee di Marx, e in un doppio modo.

Certo, Marx ha stabilito, nel Capitale, una distinzione tra i lavoratori che chiama "produttivi", cioè coloro che producono plusvalore, e gli "improduttivi", cioè coloro che non ne producono. Ma non ha mai scritto, da nessuna parte, che questa distinzione dovesse avere una qualsiasi conseguenza sulla loro combattività, il loro peso politico, il loro carattere rivoluzionario o meno.

In secondo luogo, Marx non ha neanche mai detto che i lavoratori "produttivi" dovessero essere necessariamente operai dell'industria. Per la precisione, ha scritto che ogni lavoratore produttore di merci è un lavoratore "produttivo", che la merce prodotta sia materiale o no. Ha spiegato che il processo di produzione prevede la collaborazione di una serie di lavoratori, manuali e intellettuali, "essendo i lavori manuale e intellettuale (...) collegati da legami indissolubili". Se occorrono operai per fabbricare un'automobile, occorrono anche incontestabilmente ingegneri e disegnatori. Per Marx, le merci non sono il prodotto di una serie di lavoratori unici ma di ciò che chiama "un lavoratore collettivo". Sono quindi lavoratori "produttivi" tutti coloro che sono "un organo del lavoratore collettivo" - l'espressione è di Marx. E prosegue: "È produttivo ogni lavoratore (...) il cui lavoro feconda il capitale". E questo include, ad esempio, l'infermiere in una clinica privata o il professore in una scuola privata, cioè in imprese in cui un capitalista ha investito il suo capitale aspettandosi un profitto. Non è per la natura della produzione che un lavoratore produce plusvalore, ma per la sua relazione con il capitale. E Marx scrive che un insegnante in una scuola privata "è un lavoratore produttivo non perché forma lo spirito degli alunni, ma perché frutta soldi al suo padrone. Il fatto che questi abbia messo il suo capitale in una fabbrica di lezioni piuttosto che in una fabbrica di salsicce, è solo affare suo".

Un'unica classe operaia mondiale

In realtà, l'idea che dobbiamo difendere ostinatamente è che esiste un solo e unico proletariato, un'unica classe i cui interessi sono gli stessi da un capo all'altro del mondo. E non solo i suoi membri hanno interessi comuni, ma ognuno di loro dipende, sotto molti aspetti, da tutti gli altri. La società capitalista ha creato un mondo che oggi è solo una gigantesca catena di lavoro umano, di cui è impossibile distinguere l'inizio e la fine. Chi può dire quanti lavoratori sono coinvolti nella produzione di un oggetto così semplice come le basi in ferro della sedia sulla quale siamo seduti? Non parlo solo degli operai della fabbrica che hanno fatto questi pezzi. Ma prima ancora che i pezzi di ferro siano passati sotto le stampe, c'è tutto il resto: coloro che hanno costruito la fabbrica, coloro che hanno prodotto i materiali con cui è costruita la fabbrica, coloro che hanno costruito i macchinari. E perché la materia prima stessa arrivi nella fabbrica, sono stati necessari minatori per estrarre il ferro, portuali per caricarlo sulle navi, marinai per farle funzionare. Arrivati in porto, servono ancora i gruisti, senza parlare degli operai che hanno costruito la nave e le gru, i lavoratori del petrolio che hanno raffinato la nafta e la benzina che servono a trasportare tutti quanti, e così via! E prima che il ferro arrivi alla fabbrica, ci vogliono camionisti, e perché ci siano camionisti, occorrono operai che facciano i camion, i pneumatici e la strada, e prima ancora, altri operai che producano asfalto. Per non dire di tutti i lavoratori che producono da mangiare, da bere, vestiti... per tutti questi altri operai, infermieri che li curano perché possano tornare a lavorare, insegnanti che insegnano loro a leggere, ragionieri e segretari. E perché tutto questo possa funzionare, ci vuole una rete di comunicazione, cellulari, computers, e tutto ciò è ancora e sempre lavoro umano.

Quindi, di sicuro non è esagerato dire che, vista da questo punto di vista, nella nostra semplice sedia c'è il risultato del lavoro di milioni di lavoratori. Tramite la divisione del lavoro, la borghesia ha in fin dei conti unificato il mondo! Cosa che Marx, ancora una volta, aveva perfettamente capito fin dalla sua epoca: "la grande industria fonda la storia mondiale, rendendo ogni nazione, ogni singolo, dipendente dal mondo intero" (Marx ed Engels, l'ideologia tedesca, la base reale dell'ideologia, 1845).

Sostenere che il proletariato sia scomparso significa dimenticare, o meglio fingere di dimenticare, tutto questo. Oppure significa ignorarlo, semplicemente perché c'è molta gente, negli ambienti piccolo borghesi, a cui non interessa affatto sapere chi ha realizzato la propria penna. La borghesia invece non lo ignora, perché sa dove si produce la sua ricchezza. Ma sotto molti aspetti, non sono i borghesi stessi a plasmare l'opinione pubblica e a influenzarla, sono gli intellettuali - giornalisti, economisti, sociologi... intellettuali piccolo borghesi, la cui maggioranza ignora l'esistenza del proletariato - e questo gli permette di scrivere dotti articoli per spiegare in piena buonafede che non esiste più. Questi signori passano ogni giorno accanto ad operai africani che sfondano l'asfalto con il piccone, salgono su treni condotti e puliti da uomini e donne in carne e ossa... ma non li vedono. Quindi gli operai sono diventati, per tanti intellettuali, una vera classe invisibile. Forse perché questi intellettuali non prendono i trasporti urbani? Forse perché preferiscono spostarsi con le biciclette "Velib" messe a disposizione dal municipio di Parigi? In tal caso, ricordiamo loro che non solo la suddetta bici "Velib" è prodotta da operai di una fabbrica ungherese pagati 400 euro al mese, ma anche che ogni mattina possono trovare le biciclette pronte alla fermata sotto casa, solo perché c'è un piccolo esercito di 1400 lavoratori che passa la notte a fare la manutenzione e a rimetterle nelle fermate.

Conclusione

Anche se è invisibile per chi è accecato dai suoi pregiudizi di classe, il proletariato è quindi davvero una classe sociale sempre più indispensabile al funzionamento della società, sempre più numerosa, sempre più presente su scala mondiale. Ma ormai da tanti anni, questa classe risente dolorosamente della mancanza di partiti politici capaci di unificarla, di ridarle una coscienza, di svolgere di nuovo il lavoro elementare fatto dai militanti dell'Ottocento.

Fin dai tempi di Marx, i rivoluzionari sanno che ci sono tre condizioni perché una rivoluzione possa partorire una società nuova: lo sviluppo delle forze produttive; il peso del proletariato nella società; e ciò che Marx chiamava "le condizioni soggettive", cioè lo stato di coscienza del proletariato. Poco prima della Seconda Guerra mondiale, Trotsky scriveva: "(Il proletariato) deve capire la posizione che occupa nella società e possedere le proprie organizzazioni, che mirino al rovesciamento dell'ordine capitalista. È questa la condizione che manca attualmente dal punto di vista storico". Questa osservazione, già profondamente giusta nel 1938, è ancora più vera oggi. Perché, malgrado il continuo sviluppo delle forze produttive, malgrado il peso sempre più grande della classe operaia nella società capitalista, invece di andare avanti di pari passo la coscienza del proletariato è profondamente regredita, per tutti i motivi che abbiamo spiegato. E di conseguenza, le idee più reazionarie e i peggiori pregiudizi si sono sviluppati nella classe operaia: corporativismo, campanilismo, razzismo da una parte, etnismo dall'altra, fondamentalismo religioso.

Ma la storia della classe operaia, delle sue sconfitte e delle sue vittorie, ci insegna che le cose possono cambiare molto rapidamente. Ci ha mostrato quali preziose risorse di dedizione, di immaginazione, di combattività e di solidarietà possono scaturire dalla classe operaia quando torna la coscienza. I proletari russi, prima del 1917, erano patrioti, spesso analfabeti e antisemiti. E questo non ha impedito loro di diventare, in alcuni mesi, la classe operaia più rivoluzionaria del mondo.

Oggi dobbiamo constatare il regresso della coscienza operaia. Di fronte a questa situazione, la cosa peggiore da fare sarebbe abbandonare le nostre idee, con la scusa che i lavoratori non le capiscono. Bisogna dire che non le riconquistano per colpa innanzitutto delle generazioni di intellettuali, che hanno travisato le idee comuniste e hanno così disarmato il proletariato. I tradimenti di questi intellettuali sono pagati dai lavoratori con il protrarsi di un sistema che li opprime e li schiaccia! Quindi, cercare di mantenere vive queste idee, cercare di trasmetterle intatte a quelli che domani saranno pronti a riprendere la battaglia, questo è il minimo che la piccola corrente da noi rappresentata possa fare.

Ciò che può trasformare miliardi di individui isolati in una classe sociale attiva, è la coscienza. E la coscienza si trasmette tramite partiti. Oggi come ieri, sarà l'esistenza di partiti rivoluzionari comunisti a poter unire il proletariato e a trasformarlo in una vera classe sociale, con una comprensione comune degli avvenimenti, una politica comune, azioni comuni. Partiti veramente rivoluzionari gli consentiranno di ritrovare la consapevolezza non solo che dovrà lottare, ma che dovrà rovesciare l'ordine costituito, e diventare la nuova classe dirigente. Rivendichiamo ancora la dittatura del proletariato, e con orgoglio, perché la dittatura di tre miliardi di individui sarà infinitamente più democratica della dittatura attuale di una manciata trascurabile di azionisti.

Ecco perché bisogna continuare a militare per queste idee, continuare a tentare di svilupparle nonostante i venti contrari, e nonostante il fatto che le scadenze risultino ben più remote di quello che i fondatori del comunismo speravano. Bisogna andare avanti nel convincere i lavoratori della necessità della rivoluzione, e nel condurli a una coscienza comunista. I lavoratori vivono oggi con la paura della disoccupazione e della povertà, e come se non bastasse devono subire la propaganda a senso unico dei portavoce della borghesia, che ogni giorno vorrebbero convincerli che non sono nulla, che non servono a nulla, che costano troppo cari, che sono pesi morti! Ebbene la nostra battaglia sta anche nel restaurare l'orgoglio di appartenere alla classe operaia: ed è vero, abbiamo tutti i motivi di essere fieri di appartenere -per origine sociale, ma anche con tutto il cuore - ad una classe che non sfrutta nessuno, che fa funzionare tutta la società con il suo lavoro, che ha sempre lottato contro lo sfruttamento ed è, in poche parole, il motore e il futuro dell'umanità!

È vero, il mondo è cambiato dall'epoca di Marx, e anche la classe operaia è cambiata. In meglio, sotto alcuni aspetti: la classe operaia dei paesi ricchi è oggi molto più colta, cioè molto più preparata ad acquisire le idee di quanto non lo fosse nell'Ottocento. E quella dei paesi poveri è più numerosa, più concentrata, più a contatto con il progresso tecnico di quanto non lo fosse mai stata prima. Ma quello che non è cambiato è il fatto che il proletariato sta più che mai nel cuore della produzione e dello sfruttamento e che, proprio per questo, rimane l'unica classe capace di cambiare il mondo. E finché esisterà il capitalismo questo rimarrà un punto fermo!

È vero, il mondo si evolve, le fabbriche chiudono qua e si aprono là, i centri di gravità della produzione cambiano. E allora? Quando la produzione di carrozze sparì per far posto a quella delle automobili, i militanti rivoluzionari non recriminarono, ma andarono a organizzarsi nelle fabbriche di queste nuove macchine!

E' vero, il periodo in cui viviamo e militiamo è difficile perché è segnato dalla demoralizzazione. Ma viviamo in un mondo capitalista, sotto il dominio economico, politico ed intellettuale della borghesia, e quindi non c'è da stupirsi che il cammino sia lungo e pieno di ostacoli. Le cose non potranno andare diversamente fino alla rivoluzione, e come diceva Engels, la storia del proletariato si ridurrà "ad una lunga serie di sconfitte, interrotta da alcune vittorie isolate". Ciò non cambia nulla alla validità profonda delle nostre idee, né ai compiti dei rivoluzionari.

Sociologi e giornalisti possono anche seppellire il proletariato ogni mattina, se fa loro piacere - o piuttosto se così si rassicurano, perché di questo si tratta. Noi sappiamo che sarà proprio il proletariato a seppellire questo vecchio mondo. Più che mai facciamo nostre le ultime righe del Manifesto Comunista, senza cambiare una parola: "I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero di una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi, unitevi!"