I lavoratori dei trasporti di fronte alle legge antisciopero ed alla burocrazia sindacale

Imprimer
I lavoratori dei trasporti di fronte alla legge antisciopero ed alla burocrazia sindacale (da "Lutte de classe"79)
marzo 2004

Gli scioperi che hanno coinvolto i trasporti locali delle principali città d'Italia nel dicembre e gennaio sono stati notevoli per vari aspetti.

Per la prima volta da molti anni sono scoppiati scioperi spontanei in un settore importante della classe operaia del paese, contro il parere dei rappresentanti delle grandi confederazioni sindacali e per contestare l'accordo da loro concluso con le aziende del trasporto locale. Questi scioperi hanno messo in primo piano la questione dei salari, mentre la politica sia del padronato che del governo e delle confederazioni sindacali era riuscita in pochi anni ad abbassare il potere d'acquisto in modo insopportabile. I lavoratori hanno anche dimostrato che potevano perfettamente andare oltre la regolamentazione antisciopero, creata anch'essa in seguito agli accordi tra i governi e le confederazioni sindacali e che, da quindici anni, intralciava le loro lotte. E poi, nonostante la campagna scatenata dalle principali forze politiche e dai mass media contro lo sciopero col pretesto di difendere gli utenti dei trasporti, la reazione di questa utenza e dei lavoratori in generale è stata piuttosto di comprensione e di simpatia.

Una legge antisciopero ed antioperaia

La legge 146 del 1990, rafforzata dalla legge 83 del 2000, è presunta istituire "norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati". Ma, instaurata sulla scia dei "codici di autoregolamentazione" dei conflitti sociali stabiliti negli anni precedenti dagli accordi tra confederazioni sindacali e controparti pubbliche, si tratta semplicemente di una legge antisciopero. Si è alleata alla politica contrattuale per imporre ai lavoratori arretramenti successivi, limitandone al contempo le reazioni.

Tra questi "diritti della persona costituzionalmente tutelati", la legge 146/1990 elenca "i diritti alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione ed alla libertà di comunicazione". Poi entra nel merito di ciò che bisognava intendere per "servizi pubblici essenziali" riguardo a questa legge, che siano assicurati da imprese pubbliche o da imprese private. Questi includono sia la raccolta dei rifiuti urbani e di quelli speciali, tossici e nocivi, che le dogane, sia l'approvvigionamento di energie e beni di prima necessità che la sanità e l'igiene pubblica, sia la giustizia che l'istruzione pubblica, gli asili nido o lo svolgimento degli esami universitari, le poste, le telecomunicazioni e l'informazione radiotelevisiva pubblica. Precisa anche per esempio che l'assistenza sociale, quale servizio pubblico essenziale, include "i servizi di erogazione dei relativi importi anche effettuati a mezzo del servizio bancario", che quindi da questo punto di vista può anche essere interessato all'instaurazione di un servizio minimo.

Infine la legge concerne ovviamente i trasporti pubblici, sia urbani che interurbani, stradali e ferroviari, aerei e marittimi, o almeno per questi ultimi tutti quelli che garantiscono il collegamento con le isole facenti parte del territorio italiano.

Si vede che la definizione è larga e potrebbe permettere di vietare o di limitare lo sciopero in molti settori, col pretesto che andrebbero considerati come "servizi pubblici essenziali". Invece in questa legge che vuole tutelare in modo così universale i "diritti costituzionali della persona", si cerca invano quali sanzioni siano previste contro le aziende o le amministrazioni che verrebbero meno al rispetto di questi diritti, per esempio col lasciare cadere i servizi pubblici in uno stato pietoso, come ben spesso capita per i servizi pubblici italiani. Cosa valgono questi diritti "costituzionali " alla salute, all'igiene, alla libertà di circolazione, all'istruzione quando, in mancanza di soldi, le scuole o gli ospedali vanno in rovina, quando la manutenzione delle ferrovie e dei treni viene abbandonata ? Cosa vale il diritto alla giustizia quando, per le stesse ragioni, ci vogliono anni per una minima causa?

Se su tutto questo la legge ovviamente non dice nulla, invece è particolarmente pignola per le condizioni d'esercizio del diritto di sciopero in tali "servizi pubblici essenziali" : preavviso che non può essere inferiore a dieci giorni ; definizione in ogni servizio tutelato del servizio minimo da assicurare dai lavoratori ; procedure obbligatorie di conciliazione o di "raffreddamento" del conflitto da rispettare prima di ogni sciopero ; sanzioni disciplinari e pecuniarie contro le persone o le loro organizzazioni sindacali ; norme della precettazione a cui possono ricorrere le autorità al fine di assicurare i cosiddetti "diritti costituzionali". Tutto è previsto, in tutti i particolari, per costringere i lavoratori dei servizi pubblici, col pretesto del rispetto di questi diritti, ad assicurare comunque il loro servizio.

Questa legge in sè è particolarmente antioperaia e, ancora peggio, il fatto che sia stata approvata con l'accordo delle grandi confederazioni sindacali permette di aggiungerci i "codici di autoregolamentazione", con cui le organizzazioni sindacali e le amministrazioni si accordano su limitazioni del diritto di sciopero che, per definizione, devono essere ancora maggiori di ciò che prevede la legge. Così nei trasporti locali, sono i cosiddetti "codici di autoregolamentazione" ad indicare le fasce orarie in cui si può scioperare : non si può scioperare nelle ore di punta -per esempio secondo le città prima delle 8:45 la mattina o dalle 15 alle 18, o dopo le 17. Per i trasporti ferroviari interurbani o, per esempio, per i traghetti a destinazione della Sardegna, della Sicilia o delle altre isole, gli scioperi non possono neanche svolgersi nei periodi di partenza per le vacanze.

Fortunatamente questa legge non riesce sempre a paralizzare le reazioni dei lavoratori. Da parecchi mesi per esempio è inefficace contro i lavoratori dell'Alitalia. Questi, in lotta contro il piano di ristrutturazione che la direzione vuole imporre per preparare la privatizzazione e la fusione con Air France, da parecchi mesi scioperano e manifestano massicciamente, a tal punto che il 21 febbraio, l'amministratore delegato della compagnia, Mengozzi, ha dovuto dare le dimissioni ed il piano è stato rimandato.

Già, nella primavera del 2003, gli assistenti di volo della compagnia avevano trovato come rispondere a loro modo alla legge antisciopero. Avvertiti un bel giorno che gli equipaggi degli aerei venivano ridotti autoritariamente da quattro a tre assistenti di volo, e non potendo scioperare ufficialmente, avevano deciso massicciamente di mettersi in malattia. Questo scatenò una campagna di stampa per denunciare questi lavoratori "irresponsabili" che non ubbidivano ai diktat della compagnia, ma dopo aver ricevuto 1100 certificati medici e dovuto annullare decine di voli, l'Alitalia dovette decidere di tornare precipitosamente ad equipaggi di quattro assistenti !

Contratti di categoria che diventano una brutta farsa

Nondimeno nel settore dei trasporti pubblici, da anni governi ed amministrazioni riescono ad imporre il loro disprezzo completo dei "diritti della persona" quando queste persone sono i lavoratori, all'occorrenza quelli dei servizi pubblici.

I salari dei lavoratori della categoria, gli autoferrotranvieri, sono regolati dal contratto del trasporto locale - fuori trasporto ferroviario - di cui l'ultimo è stato firmato per i quattro anni dal 1 gennaio 2000 al 31 dicembre 2003 e concerne complessivamente 120 000 lavoratori. Come tutti i contratti da più di quindici anni, prevede l'aggiustamento dei salari rispetto all'inflazione solo sulla base di una cosiddetta "inflazione programmata" indicata in anticipo da governi e padronato. Ovviamente questa risulta dopo notevolmente inferiore all'inflazione constatata ; senza neanche parlare del fatto che le cifre ufficiali dell'inflazione misurata dall'ISTAT indicano solo un'inflazione teorica ben inferiore all'inflazione reale così come la possono risentire quelli che nei ceti popolari devono ogni giorno far fronte alle spese della vita quotidiana.

Rimane che, da quando governi, padronato e confederazioni sindacali hanno definitivamente seppellito, all'inizio degli anni '90, il sistema di scala mobile che fino ad allora garantiva parzialmente i salari contro l'inflazione, è prevalsa nei contratti di categoria questa nozione d'"inflazione programmata". Questa truffa si è rivelata un mezzo efficace per imporre un abbassamento dei salari reali. Infatti, anche se i contratti comportano clausole di verifica e di adeguamento dei salari in un secondo tempo, secondo l'inflazione effettivamente constatata, questo adeguamento comunque non è mai completo, e in tutti i casi sempre in ritardo sull'inflazione.

Come molti altri il contratto di categoria 2000-2003 dei trasporti pubblici prevedeva una verifica a metà strada, quindi alla fine del 2001, dell'evoluzione dei salari e dei prezzi. Ma alla fine del 2003 questa verifica non era ancora conclusa, ed i rappresentanti della controparte non sembravano molto impressionati dalle giornate sindacali di sciopero, anch'esse regolarmente programmate, in generale con fermate del lavoro di quattro ore nel pieno rispetto delle leggi 146/1990 e 83/2000...

Secondo gli stessi sindacati confederali Cgil-Cisl-Uil, l'adeguamento dei salari all'inflazione necessitava un aumento dei salari mensili di 106 euro, retroattiva dal 1 gennaio 2002, che le aziende di trasporto locale rifiutavano di concedere. Queste invocavano le loro difficoltà finanziarie, non solo per non riadeguare sufficientemente i salari - cioè il semplice rispetto del contratto firmato nel 2000 - ma per vincolare un parziale riadeguamento dei salari a "guadagni di produttività", vale a dire ad un aggravamento delle condizioni di lavoro, per esempio con orari di pausa diminuiti o più rigidi. Le confederazioni sindacali sono abituate a firmare tali compromessi, ben più favorevoli ai padroni ed alle direzioni aziendali che ai lavoratori, e si preparavano effettivamente a farlo.

I lavoratori escono dal quadro fissato dalle confederazioni

Ma la preparazione dell'ennesima giornata di sciopero, programmata per il 1 dicembre 2003, avrebbe dimostrato che la pazienza dei lavoratori aveva superato il limite.

A Milano il 1 dicembre i lavoratori decisero di uscire dal quadro fissato in anticipo tra sindacati e direzione dell'ATM, l'Azienda dei trasporti milanesi, che conta 8500 dipendenti. Nei giorni precedenti, nelle assemblee, nelle discussioni nei depositi, i lavoratori avevano maturato la loro decisione ; una parola d'ordine aveva cominciato a circolare. Quel giorno, massicci picchetti di sciopero si formarono sin dalle 5 del mattino nei vari depositi, impedendo l'uscita dei veicoli e dei treni. Lo sciopero era totale nel metrò come nella rete di superficie, e questo sin dall'inizio del servizio e senza aspettare le 8:45, ora alla quale lo sciopero sarebbe divenuto legale.

Lo sciopero rimase totale anche dopo le 15, e si prolungò fino alla sera. E anche nelle altre grandi città lo sciopero fu praticamente totale, pur rispettando le fasce orarie del servizio minimo.

Lo sciopero totale dei trasporti urbani in una città come Milano, senza rispetto né del servizio minimo né delle consegne sindacali, dava la misura della collera dei lavoratori. Lo sciopero scatenò una campagna d'indignazione nella stampa, nei mass media, e da parte dei responsabili politici, ovviamente in nome del rispetto dell'utenza, presa in ostaggio secondo la stampa dai lavoratori dell'ATM e dalle altre aziende del trasporto locale. Il Corriere della Sera, in mezzo alle foto del caos in cui erano sprofondate le vie di Milano, non si vergognò di denunciare gli scioperanti con un titolo secondo cui "l'urlo della città" era "licenziateli !" Lo stesso dirigente della Cgil Guglielmo Epifani, pur dichiarando di capire le ragioni dei lavoratori, rimproverò loro di non aver rispettato la legge e di aver preso in ostaggi gli altri lavoratori, impedendogli di recarsi al lavoro.

Ma mentre i mass media ed i dirigenti politici cercavano di sollevare l'opinione pubblica contro gli autoferrotranvieri, in realtà questi ultimi non incontravano l'ostilità, bensì piuttosto la simpatia e la comprensione degli altri lavoratori, anche se questi ovviamente conoscevano difficoltà per i loro spostamenti. Una gran parte del paese scopriva così leggendo qualche notizia che a Milano un autista dell'autobus poteva percepire solo 850 euro al mese con un contratto precario, e per quelli con più anzianità raggiungere tutt'al più 1300 euro al mese. Lungi dall'essere questa aristocrazia operaia che alcuni immaginavano, si trattava spesso di giovani mal pagati, ed in gran parte meridionali, costretti per sopravvivere nella città più cara del paese ad accontentarsi di questo misero stipendio. Ma questo spiega anche probabilmente perché riscoprivano così naturalmente l'arma dello sciopero, senza tanto rispetto per le forme che volevano imporre direzione aziendale e sindacato.

Per la giornata di sciopero successiva, prevista per il 15 dicembre, gli apparati sindacali si preparavano a far fronte alla loro base. Questa volta, a Milano, il prefetto utilizzò l'arma della precettazione e riuscì ad impedire uno sciopero simile a quello del 1 dicembre, costringendo i lavoratori a rispettare le fasce orarie del servizio minimo. Invece fu nelle altre città che si videro i lavoratori ispirarsi all'esempio milanese ed i picchetti bloccare completamente il traffico sin dall'inizio del lavoro, tra l'altro a Torino, Brescia, in Calabria. In altre città, le aziende del trasporto ricevevano numerosi certificati medici dai loro dipendenti, e neanche il servizio minimo era assicurato.

Finalmente il 20 dicembre, i lavoratori furono informati che le tre confederazioni Cgil, Cisl ed Uil avevano appena firmato un accordo con i rappresentanti della controparte. Invece dei 106 euro di aumento retroattivo richiesto dai sindacati dal 1 gennaio 2002, questo accordo prevedeva un aumento mensile di 81 euro dal 1 dicembre 2003. In quanto all'arretrato dovuto dopo questo riadeguamento tardivo dei salari rispetto all'inflazione constatata durante quattro anni, l'accordo si concludeva con un premio "una tantum" di 970 euro, mentre i lavoratori stimavano il mancato guadagno tra 2700 e 3000 euro.

L'annuncio dell'accordo fece scoppiare il malcontento dei lavoratori. Sin dal 20 dicembre, fermate spontanee del lavoro si moltiplicarono nelle varie città, senza rispetto né del preavviso né delle fasce orarie. Ma le autorità ricorsero massicciamente alla precettazione, mentre i lavoratori, senza organizzazione né coordinamento, poco a poco riprendevano il lavoro.

Lo sciopero del 9 gennaio ed i sindacati di base

L'accordo del 20 dicembre significava che i dirigenti sindacali non esigevano neanche dalla controparte padronale che sia applicato l'impegno di riadeguamento dei salari contenuto nel contratto di categoria del 2000. Per giustificarsi, si accontentarono di dichiarare che, poiché i padroni non volevano dare di più, almeno firmando l'accordo avevano salvato l'esistenza di un contratto nazionale di categoria, nel momento in cui governo e padroni vogliono rimetterlo in questione a profitto di accordi aziendali od addirittura abolendolo del tutto.

La giustificazione si avvicina al cinismo : mentre la controparte padronale voleva imporre difatti un abbassamento dei salari reali e si dichiarava pronta a fare a meno di accordi nazionali, secondo i dirigenti confederali era meglio inchinarsi e firmare accordi nazionali vuoti piuttosto che ritrovarsi in situazione di non poterne firmare più. In fondo questo permetteva ai burocrati di salvare il loro posto di interlocutori professionali dei padroni e del governo, in cambio di una capitolazione che non gli costava ben caro : tutto sommato, si trattava solo del salario dei lavoratori !

Di più, dichiarando con fatalismo che non si poteva ottenere di più, vista la situazione finanziaria delle aziende del trasporto locale, i dirigenti confederali mostravano di ragionare ben più dal punto di vista di queste aziende che dal punto di vista dei lavoratori.

La reazione di questi ultimi dimostrava tra l'altro che molti di loro si erano fatta la loro opinione sul ruolo delle direzioni confederali. Ma dimostrava anche l'assenza di un'organizzazione capace di offrire un'alternativa reale di fronte alle capitolazioni dei burocrati confederali. Questo vuoto stava per essere riempito, almeno fino ad un certo punto, dai sindacati di base.

Certamente il termine di sindacati di base non è molto adeguato per designare i raggruppamenti nati durante i venti anni scorsi sotto l'impulso di vari militanti che cercavano di offrire un'alternativa sindacale alle confederazioni Cgil-Cisl-Uil ed alle loro capitolazioni. La nascita di questi piccoli sindacati, spesso intorno a militanti dell'estrema sinistra, o comunque militanti in rottura con le confederazioni, poi i vari tentativi per federarli o le scissioni che li hanno divisi, hanno portato all'esistenza delle varie sigle sindacali, dallo Slai-Cobas al sin-Cobas, dalla confederazione Cobas alle RdB od alle organizzazioni influenti solo in una categoria particolare, come il Sult nel trasporto aereo od il Comu nei trasporti ferroviari. Salvo eccezioni si tratta di sindacati molto minoritari, che ben spesso hanno riprodotto purtroppo gli stessi difetti delle confederazioni, dal corporativismo al burocratismo, anche se ovviamente in più piccolo. Ma nonostante le critiche che si possono fare alla loro politica ed alla loro dispersione, nondimeno raggruppano in molti settori minoranze di militanti più atti e più pronti ad esprimere la combattività dei lavoratori quando questa emerge, di quanto non lo siano i dirigenti confederali.

Così dopo l'accordo del 20 dicembre 2003 ed il voltafaccia dei sindacati confederali, furono i sindacati di base ad indire una nuova giornata di sciopero dell'insieme dei lavoratori dei trasporti locali, il 9 gennaio 2004. Il 3 gennaio organizzarono a Firenze un'assemblea nazionale dei rappresentanti dei lavoratori della categoria, con un centinaio di persone delle varie aziende di trasporto urbano, in maggior parte militanti dei sindacati di base. Questa assemblea si proclamò "coordinamento nazionale di lotta degli autoferrotranvieri".

L'accordo milanese

L'iniziativa di uno nuovo sciopero corrispondeva alle attese dei lavoratori del settore, e la stessa giornata del 9 gennaio lo dimostrò chiaramente. Fu molto seguita, in particolare ancora questa volta a Milano dove il blocco fu di nuovo totale, ed il movimento si prolungò nei giorni successivi, con lavoratori che cercavano di cominciare uno sciopero ad oltranza o decidevano fermate del lavoro "selvagge", nonostante le minacce di precettazione.

Questa volta la direzione dell'ATM ed in realtà, al di là, il municipio di Milano ed il governo, cominciarono a temere che la situazione sfuggisse completamente al controllo dei loro soliti interlocutori sindacali. Ne dovette però trarre le conseguenze, e mollare. Il 14 gennaio, si seppe che l'ATM aveva firmato un accordo con i rappresentanti delle confederazioni. Questa volta, cedeva i 106 euro di aumento richiesti dai sindacati. La concessione era limitata -poiché 81 euro erano già stati concessi dall'accordo del 20 dicembre- ma di più l'ATM abbandonava la sua pretesa di vincolare l'aumento ad un aumento della produttività, che avrebbe significato concretamente un'organizzazione più rigida delle pause. L'accordo appariva come un successo per i lavoratori dei trasporti milanesi, risultato della loro combattività grazie alla quale, sin dall'inizio, erano stati il settore di punta del conflitto.

Ma la firma di questo accordo da parte dei dirigenti confederali, senza peraltro che questi chiedessero il loro parere ai lavoratori più di quando avevano firmato l'accordo del 20 dicembre, introduce il precedente di un negoziato separato al livello di una città invece della categoria nel suo complesso. Questo vuol dire precipitarsi sulla strada, in realtà già aperta da tempo secondo gli auspici dei padroni e del governo, della sostituzione degli accordi d'impresa ai contratti nazionali di categoria.

E difatti si videro fiorire nella stampa le spiegazioni per giustificare l'accordo col fatto che, comunque, il municipio di Milano aveva più possibilità finanziarie degli altri, e che d'altra parte, poiché la vita è notevolmente più cara a Milano che a Napoli e Palermo, l'autista dell'autobus napoletano non avrebbe bisogno di un aumento dello stesso livello del suo collega milanese. Il commento è più che tendenzioso, visto il livello comunque molto basso dei salari di cui si tratta e che, se sono insufficienti per vivere a Milano, lo sono altrettanto a Napoli. Ma inoltre questo vuol dire dimenticare un po' rapidamente che non si trattava che di applicare un accordo firmato quattro anni prima e che la firma dell'accordo separato milanese significava da parte dei dirigenti confederali accettare il non rispetto, su scala nazionale, dell'impegno sul riadeguamento dei salari contenuto nel contratto nazionale.

Ovviamente non ci si poteva aspettare di vedere i sindacati confederali proclamare la necessità di proseguire la lotta per imporre su scala nazionale i 106 euro imposti dagli autisti milanesi, cioè rinnegare l'accordo del 20 dicembre col quale si erano accontentati di 81 euro. Invece i sindacati di base ed il "coordinamento nazionale", con ragione, affermarono questa necessità, chiamando ad una nuova giornata di sciopero nazionale il 26 gennaio, riportata poi al 30 gennaio a causa delle scadenze imposte dalla legge.

Se fu ben seguita in alcune città, questa giornata ebbe solo un impatto limitato, in parte per la debolezza dei sindacati di base e del coordinamento nazionale, che in realtà non era niente di più che un comitato intersindacale dei sindacati di base. Probabilmente la stanchezza cominciava a prevalere tra i lavoratori, tanto più che il settore più avanzato nella lotta, Milano, ormai veniva meno. Tra l'altro l'obiettivo dell'accordo separato milanese era di circoscrivere l'incendio e dare una battuta d'arresto ad una possibile generalizzazione. Di più, nel frattempo, il sindacato Cgil dei trasporti faceva ratificare l'accordo di dicembre con un referendum col quale chiedeva il parere ai suoi soli tesserati.

Pertanto le difficoltà dei burocrati sindacali con la loro base non sono finite, poiché ora si apre il periodo di discussione del nuovo contratto di categoria, che dovrebbe coprire i quattro anni 2004-2007. E i lavoratori dei trasporti pubblici non sono ancora pronti ad accettare di essere, ancora per quattro anni, le vittime di una farsa il cui unico risultato è il ribasso progressivo dei salari in un settore in cui, ancora una decina d'anni fa, sembravano piuttosto al di sopra del salario medio.

Un esempio che deve fare scuola

Oggi, per l'insieme degli autoferrotranvieri il bilancio è mitigato. Molti probabilmente si dividono tra l'orgoglio di essersi difesi nonostante tutto, od addirittura nel caso milanese di avere riportato una vittoria parziale, e l'amarezza o la rabbia di essere stati ingannati, non solo dai padroni ma anche dai dirigenti sindacali. Ma per molti lavoratori al di là del settore degli autoferrotranvieri, questa lotta è stata sicuramente un incoraggiamento.

Nel contesto italiano, le lotte operaie sono strettamente rinchiuse nel quadro delle negoziazioni e rinegoziazioni dei contratti di categoria, orchestrate da burocrazie sindacali che hanno un peso importante. Da anni, queste negoziazioni sono il tramite con cui, grazie all'aperta complicità dei burocrati sindacali, la controparte padronale ha potuto fare accettare ai lavoratori arretramenti progressivi. Questi riguardano tutti gli aspetti : condizioni di lavoro e di assunzione, precarietà del lavoro e flessibilità degli orari, ma anche, difatti, questo ribasso dei salari reali. Il discredito dei grandi apparati sindacali è reale ma, di fronte al peso importante che questi rappresentano ancora, nella maggior parte dei casi i lavoratori non si sentono capaci di prendere loro stessi l'iniziativa della lotta, e ancora meno di controllarla. E nel caso dei servizi pubblici, il peso degli apparati è ancora rafforzato dall'effetto della legge antisciopero.

Complessivamente la stessa esperienza dei sindacati di base ha piuttosto dimostrato il contrario di quanto si auguravano molti tra i loro promotori. Al di là del merito che possono avere molti dei loro militanti, il moltiplicarsi delle sigle, la loro frammentazione, e spesso i limiti di una politica strettamente sindacale, od addirittura corporativista o semplicemente limitata alla difesa irrisoria di una bottega, tendono spesso a dare di fronte ai grandi apparati una dimostrazione d'impotenza.

L'esperienza della lotta degli autoferrotranvieri, in particolare a Milano, è di un'altra natura rispetto a questi tentativi che rimangono nel quadro sindacale. Ha riportato sul davanti della scena lo sciopero, come arma dei lavoratori stessi ; un'arma che ha poco a che vedere con le giornate d'agitazione di quattro ore programmate dalle burocrazie sindacali e che, per loro, sono solo un'alibi ; un'arma di cui purtroppo decenni di questa politica portata avanti dai dirigenti sindacali e dai partiti di sinistra sono riusciti a far dimenticare ai lavoratori fino all'esistenza stessa. Ha dimostrato che l'iniziativa può venire dalla base, e che i lavoratori la possono fare prevalere nella lotta e contro le consegne degli apparati. Ha dimostrato che possono andare oltre la legge anti sciopero e le precettazioni, senza che le autorità siano in grado di applicare veramente le loro minacce di sanzioni. E ha dimostrato che lottando in modo deciso i lavoratori possono finalmente farsi rispettare.

Allora, bisogna augurarsi che questa esperienza rimarrà nella memoria dei lavoratori che l'hanno vissuta, ma anche che si consoliderà, che farà scuola, che si estenderà. Dopo decenni di arretramenti, in cui le direzioni sindacali ed i partiti hanno fatto di tutto per fare dimenticare loro fino alle più elementari tradizioni d'organizzazione e di lotta, i lavoratori non hanno altra scelta che di imparare di nuovo come lottare, come dirigere loro stessi le loro battaglie, come fare prevalere il loro punto di vista su quello dei burocrati, come farsi rispettare da loro e, al di là, dal padronato e dal potere. Ed è un apprendistato per cui, appunto, non esiste altra scuola che quella della lotta stessa.

Questo non può, quindi, che passare per una serie di esperienze, che necessariamente saranno più o meno complete, più o meno riuscite, attraverso dei successi, dei mezzi successi, ma anche delle sconfitte, nelle quali i lavoratori più coscienti dovranno imparare. Ciò può fare di queste esperienze l'inizio di un nuovo percorso per le lotte della classe operaia. Un percorso sul quale, forse, la lotta degli autoferrotranvieri sarà stata il primo passo.