Russia : Cosa c'è dietro la gloria effimera degli oligarchi

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Russia : Cosa c'è dietro la gloria effimera degli oligarchi (da "Lutte de Classe" n 96 - aprile 2006)
30 marzo 2006

L'albo d'oro 2006 dei miliardari in dollari pubblicato dalla rivista americana Forbes non cita più due magnati russi del petrolio tra i 25 possessori dei più grandi patrimoni mondiali, ma uno solo: Roman Abramovitch. L'altro, M. Khodorkovski, che è stato il più ricco dei due, è scomparso dalla classifica. Negli ultimi anni era stato presentato dalla numero "Uno" delle riviste come il prototipo dei nuovi capitalisti spinti allo zenith dalla privatizzazione dell'economia russa. Ma, dopo, ha avuto qualche guaio con la giustizia del proprio paese. Così Forbes l'ha radiato dalla classifica e adesso figura solo sul registro di una prigione siberiana con una condanna a otto anni per "furto [ai danni dello Stato] truffa ad alti livelli ed evasione fiscale ad alti livelli, mancato rispetto di una sentenza giudiziaria, attentato agli interessi di azionisti con frode, falso in bilancio, dilapidazione di beni altrui" e soprattutto per essersi messo di traverso sul cammino del clan che ruota intorno a Putin e che dirige la Russia. La giustizia inoltre gli ha ripreso la compagnia petrolifera Iukos sulla quale egli aveva costruito la sua fortuna, che si è, di colpo, fusa come neve al sole, passando in un anno da otto miliardi di dollari a mezzo miliardo.

Nel 1995, al momento del grande assalto ai gioielli dell'economia russa, Khodorkovky, approfittando delle sue strette relazioni con l'allora capo del Cremlino, Eltsin, aveva potuto acquistare Iukos per 350 milioni di dollari, quando era stimata per un valore di 9 miliardi di dollari!

STELLE... FILANTI

Khodorkovski, ieri tra i "top 25" della ricchezza mondiale, è oggi in carcere... Abramovitch, per quanto lo riguarda, ha preferito andare oltre.

La carriera di questo affarista - diventato il più ricco del paese, pur, ed è caratteristico di questi personaggi, non possedendo più granché in Russia e risiedendo prudentemente all'estero -, prese il via sotto la presidenza di Eltsin.

Allora era "il banchiere della Famiglia", vale a dire uno degli uomini più vicini a colui che presiedeva la Russia dopo la caduta dell'Urss, nel dicembre 1991. Nel 1999, sentendo arrivare la fine di un'epoca (poiché Eltsin si apprestava a passare il comando), Abramovitch scelse di farsi eleggere governatore - per ottenere l'immunità - ma nella provincia più lontana da Mosca, la Tchukotka, di fronte allo stretto di Behring - per dimostrare al Cremlino di non mirare al posto di comando. Due precauzioni valgono più di una, a questo allontanamento politico simbolico, ne aggiunse uno più concreto: si stabilì a Londra. Decise di liberarsi della maggior parte delle azioni russe rivendendole a gruppi dipendenti dallo Stato Russo, compresa la Sibneft, compagnia petrolifera della quale controllava il 72% del capitale. Con il denaro ottenuto acquistò yachts di gran lusso, una scuderia di cavalli da corsa e una squadra di calcio di primo livello, il Chelsea.

Era un modo per rendere esplicita la sua volontà di concentrare ormai le sue ambizioni su attività e latitudini che non avessero più grande rapporto con la Russia. Durante lo smantellamento giudiziario della compagnia petrolifera di Khodorkovski, con il quale aveva avuto legami d'affari, Abramovitch si guardò bene dal fare qualcosa che sarebbe potuto essere interpretato come ostile al Cremlino. Al contrario, si prestò a tutte le manovre politico-finanziarie tese a reintegrare la "nave-ammiraglio"dell'ex impero Khodorkovski nelle mani dello Stato Russo. Inoltre annullò la fusione tra la sua compagnia Sibneft e quella di Khodorkovski, Iukos, che, se si fosse concretizzata, sarebbe sfociata in un nuovo colosso di diritto internazionale, cosa che avrebbe ostacolato i circoli del potere nel riprendere possesso del settore petrolifero. Poi accettò di rivendere le sua parte di Sibneft al gigante del gas, Gazprom, controllato dallo Stato russo.

Il presidente russo Putin, in vena di ringraziamenti, avendo deciso che i governatori non sarebbero più stati eletti, ma designati da lui -divenendo così, secondo l'espressione del giornale liberale russo Nezavissimaia Gazeta, "gli intendenti del potere supremo moscovita"-, offrì all'ormai londinese Abramovitch un secondo mandato da governatore della Tchovkotka, un territorio povero di abitanti ma ricco di materie prime.

In effetti, della decina d'uomini più ricchi che, alla fine degli anni '90, avevano fatto man bassa dei pezzi dell'antica proprietà dello Stato sovietico e che si vantavano di fare e disfare i governi, la maggior parte erano stati imprigionati o mandati in esilio, con più o meno riguardo secondo la loro docilità rispetto al potere del momento.

Principale magnate di un'epoca che volgeva al termine, Boris Berezovski, nel 1996, per caratterizzare sé stesso e i suoi simili, aveva reso attuale il termine "oligarchi" - altrimenti detto, "i pochi che comandano". Con completa immodestia, e soprattutto precipitazione, come non tardò a constatare egli stesso, quando, qualche mese più tardi, si ritrovò incarcerato. Appena libero, preferì fuggire dalla Russia. Stabilitosi in Gran Bretagna - dove ha ottenuto lo statuto di rifugiato politico, evitando anche fino, ad oggi, di essere estradato in Russia, dato che la giustizia russa lo reclama regolarmente -, ha dovuto cedere a persone vicine al potere russo gran parte delle sue antiche imprese. Stessa cosa per il suo antico rivale, divenuto ormai una comparsa, Govssinski: Putin gli fece assaggiare la prigione per fargli perdere il buonumore ed obbligarlo a filarsela in Europa occidentale. Padrino - in senso proprio e figurato - dell'alluminio sotto Eltsin, Lev Tchenoi che è stato costretto da Putin a cedergli parte dei suoi affari, andò a cercare rifugio in Israele per sfuggire all'estradizione giudiziaria (reclamata dalla Russia, ma anche dagli Stati Uniti). Legato al precedente, e soprattutto ai servizi speciali dell'ex-KGB, l'uomo d'affari Arkadi Gaydamak, che dirige un gruppo di stampa (Moscow News) protetto dal Cremlino, ha fatto ancora una volta parlare di sé. A metà marzo dichiarò di aver acquistato la holding che pubblica France Soir, tutto questo da Tel Aviv. A dire il vero, ancora sotto la pressione di un mandato di arresto internazionale dell'Interpol per traffico d'armi con l'Angola, Gaydamak può circolare solo in paesi dai quali non rischia di essere estradato. Dunque da qui non avrebbe neanche potuto comprare una copia del quotidiano di cui sarebbe divenuto proprietario! Di fatto France Soir si trova sull'orlo del fallimento, riscattarlo è innanzitutto, per Gaydamak e i suoi mandanti, un modo per riciclare in Occidente una parte dei fondi ammassati in Russia. Tra altri meno conosciuti perché meno importanti, Smolenski ha fatto sapere che era stato fortemente incitato dai circoli del potere a passare la mano. Così ha preferito liquidare i propri affari in Russia e trascorrere in Francia una pensione tanto involontaria quanto dorata.

Questo non significa che i baroni-ladri dell'era Eltsin siano tutti scomparsi sotto Putin, di certo non i loro gruppi, né chi sta dietro a questi. Infatti Putin poteva ridimensionare quelli che si comportavano in modo particolarmente ostentato come se fossero alle prese con dei terreni di conquista, in uno Stato russo indebolito da Eltsin. Poteva anche, e non se ne è privato, tentare di riequilibrare la distribuzione delle fette della torta delle privatizzazioni essenzialmente a favore dei clan ai quali era legato, che ritenevano essere stati lesi nel periodo precedente. Ma Putin non avrebbe potuto sopprimere tutti questi Stati dentro lo Stato, quali sono i grandi corpi e i grandi clan della burocrazia, per riprender loro i pezzi dell'economia di cui si erano appropriati. Infatti sono loro che controllano, collettivamente, i più grandi settori dell'economia, trasformandoli in feudi privati, anche se in primo piano si sono collocati, o sono stati collocati, degli individui super ricchi, creati dal potere come paravento di questi clan.

Il caso di Piotr Aven è caratteristico. Ricchissimo co-presidente del gruppo Alpha (banca e petrolio) sembrava piuttosto "in corsa". Il vecchio ministro del Commercio estero sovietico - che aveva come consigliere quello che è poi diventato l'attuale Primo ministro, Fradkov - nel 1992 ha organizzato, insieme ai principali responsabili ministeriali e ai capi del KGB, la privatizzazione di diverse aziende dipendenti dal suo ministero. Una delle quali, specializzata nell'esportazione di prodotti petroliferi, la Soyuzneflexport, della quale si stimano in un miliardo di dollari i beni e gli averi all'estero, passò nelle mani degli alti funzionari e dei loro alleati del KGB per 2000 dollari. Quanto al gruppo Alpha, partecipò alle operazioni finanziarie del numero uno mondiale del gas, il gruppo russo Gazprom (privatizzato dagli alti responsabili dell'ex ministero sovietico del gas) e, si dice, sia una delle coperture economiche degli alti responsabili dei servizi di informazione. Proveniente da questo stesso ambiente con le sue discordie interne, Putin potrebbe regolare i conti con Aven (o con l'altro presidente dell'Alpha, Mikail Fridman, che in precedenza è stato suo collaboratore), ma certamente non potrebbe prendersela direttamente col gruppo Alpha. Non ne avrebbe i mezzi. La stessa cosa vale per il gruppo Interros di Vladimir Putin, che fu vice-Primo ministro di Eltsin, ma del cui gruppo è stato principalmente padrino per conto dell'alto stato maggiore del KGB. O ancora per il "padre delle privatizzazioni" del tempo di Eltsin, Anatoli Tchubais, divenuto presidente di RAO-EES (l'equivalente di EDF).

Quanto a Oleg Deripaska, che veniva chiamato il re dell'alluminio sotto Eltsin (era suo genero), adesso si occupa di immobili. A Mosca egli controllerebbe un terzo del settore delle costruzioni, e deve aggiungere al patronato del clan dell'ex presidente russo quello dell'attuale Primo ministro. Prudentemente, nel frattempo, abita da un po' di tempo lontano da Mosca, nel suo palazzo londinese o nella villa che Stalin aveva fatto costruire a Gagra, in Abkhazie, una repubblica georgiana di fatto indipendente, che serve da base per diversi traffici.

Sicuramente non c'è da sorprendersi "nel vedere [questa gente] inquietarsi mentre il Cremlino riprende in mano l'economia", secondo una cronaca di Le Monde del 21 febbraio, intitolata "Russia e miliardari".

All'epoca in cui stavano rubando i loro primi miliardi, negli anni '90, in cui i clan dirigenti della burocrazia si scontravano sulla proprietà dello Stato, questi predatori venivano spesso descritti come grandi finanzieri e capitani d'industria. Sarebbero stati la prova vivente dell'emergere, o del rafforzamento di una "nuova Russia". Questa Russia di "nuovi ricchi" aveva iniziato la sua "transizione", affermavano certi commentatori. Altrimenti detto, la Russia sarebbe passata con successo dall'economia sovietica, statalizzata e pianificata, a quella di mercato, governata dalla legge del profitto.

Certo, una quindicina d'anni dopo la caduta dell'Unione Sovietica, molte cose sono cambiate - lo Stato, sotto Putin, sembra molto meno privo di forza e di volontà di quanto non fosse sotto Eltsin per poter tentare di riequilibrare in suo favore i rapporti di forza politico-economici tra lui e i grandi clan della burocrazia. Ma sorprende dover constatare ancora che, nei rapporti tra la sfera economica e quella politica, attraverso giri e peripezie, l'ultima parola rimane ancora in fin dei conti al potere politico. In Russia, quando le decisioni sono determinanti è esso a primeggiare, mentre ovunque, negli altri paesi, qualunque peso abbiano nell'economia mondiale, il rapporto è inverso.

LE PRIME PRIVATIZZAZIONI RUSSE

Che la sete di arricchimento sia il motore della scalata di burocrati-affaristi-gangster alla proprietà statale sovietica è evidente. Questa sete è antica come la burocrazia stessa. Nel passato, essa è stata contenuta solo dalla paura del proletariato, del quale la burocrazia usurpò il potere e paralizzò le conquiste. Dopo, ed è ancora un'espressione lontana di questa paura, è stata contenuta dalla dittatura dei vertici politici della burocrazia. Ma dopo la morte di Breznev nel 1982, la lotta per il potere tra i vertici della burocrazia ha affievolito il potere centrale.

L'esito della lotta tra Gorbaciov, eletto segretario generale nel 1985, e i suoi rivali dell'Ufficio politico era incerto, non emergeva nessun arbitro supremo capace di imporsi su tutti gli altri burocrati, questo permise a questi ultimi di dimostrare il loro sostegno ai gerarchi del regime avversi al potere centrale. Questo non poteva che indebolire ancor più il potere centrale, mettendolo, alla fine, nell'incapacità di opporsi all'appropriazione da parte dei burocrati, ciascuno al suo livello e in base alla propria giurisdizione, dei pezzi del potere politico, il quale potere politico restava tuttavia la chiave con la quale la casta dirigente poteva metter le mani sulle risorse del paese. Questo spiega la fretta con la quale l'équipe di Eltsin decise di privatizzare 240.000 industrie appartenenti allo Stato, praticamente la firma dell'atto di dissoluzione dell'Urss, nel dicembre del 1991.

Certe istituzioni del mondo imperialista, tra cui la Banca mondiale e la BERD (la banca che ha il compito di aiutare l'Europa centrale e orientale a passare all'economia di mercato, e i trusts occidentali a impiantarvisi), rimproverano ancora ai dirigenti russi il loro modo di privatizzare. In un rapporto del 2002, la BERD, constatando che la produttività delle imprese russe (generalmente privatizzate) resta inferiore a quella che avevano al tempo dell'Urss, si rammarica che "le patologie presenti all'epoca sovietica, la corruzione e la delinquenza economica, si sono aggravate con le privatizzazioni, tanto che la ricchezza è ormai profondamente associata, nell'immaginario popolare, al furto". Ascoltando, oggi, certi critici occidentali, questa messa all'incanto dell'economia sarebbe all'origine dell'incapacità della Russia di funzionare "normalmente" sulla base della proprietà privata.

Ricordiamo come, una quindicina d'anni fa, anche i capi del mondo imperialista e, dietro di essi, una coorte di uomini politici, di intellettuali, di "specialisti" (tra cui quelli della BERD, del FMI, della Banca mondiale) e di giornalisti, applaudivano alla privatizzazione e alla "terapia d'urto" dei governanti russi, e ricordiamo anche le loro dichiarazioni stentoree sul ristabilirsi, a ritmi impetuosi, del capitalismo in Russia!

Ma, al di là delle menzogne di questa gente - menzogne di ieri, quando promettevano un rapido sviluppo economico in una Russia che si stava privatizzando; menzogne di oggi, quando addossano la responsabilità del crollo sociale ed economico del paese ai soli "errori" dei dirigenti russi di allora, - un fatto è certo. Non solo la Russia non ha conosciuto una nuova era di sviluppo sulla base della proprietà privata, ma la sua produzione è fortemente peggiorata, come le condizioni di esistenza sella maggior parte della popolazione, tanto da assumere tratti di sotto-sviluppo: contrazione dell'economia riguardante la produzione e l'esportazione di materie prime; fuga di capitali (200 miliardi di dollari nel solo decennio 1994-2004); aggravamento dell'ineguaglianza tra le città e le campagne, e tra le regioni (un Russo su cinque, essenzialmente in ambito rurale, sopravvive con l'equivalente di meno di due dollari al giorno, mentre Mosca si colloca appena dietro New York per il numero (33) di miliardari in dollari che vi risiedono), etc.

Questa situazione ha delle cause ben più profonde di quelle evocate oggi apertamente negli ambienti finanziari e dei dirigenti mondiali. Cause che rinviano alla storia dell'Urss e poi della Russia e della burocrazia che ha dominato la società; cause tra le quali le privatizzazioni alla maniera di Eltsin furono certo un fattore aggravante, ma che sono una logica conseguenza di qualcos'altro.

Anatoli Tchubais, l'organizzatore del programma russo di privatizzazioni, ha più volte spiegato che coloro che si trovarono alla guida della Russia dopo il 1991, non avevano quasi scelta. Non potendo opporsi a un processo di privatizzazione del potere in ogni sua manifestazione, processo che minava lo Stato e la proprietà statalizzata da anni, Eltsin e il suo gruppo presero atto di un dato di fatto. Cercando, attraverso la legge, di rendere questa situazione irreversibile, vollero agganciarsi a coloro che avevano originato questa situazione e che avevano più di altri da guadagnarci - i membri dell'apparato dirigente dello Stato - infatti Eltsin e il suo seguito sapevano che il loro nuovo potere era fortemente contestato all'interno della stessa casta dirigente, in uno Stato che era ridotto alla sola Russia.

Perciò, il governo di Eltsin offrì un carattere di ufficialità a quella che resta la più grande rapina del 20 secolo: l'appropriazione privata da parte di un numero più o meno grande di alti burocrati della proprietà dello Stato ex-sovietico. Questo permise ai burocrati dell'economia di appropriarsi della loro parte di potere (il controllo privato delle imprese), come già altri burocrati - che avevano diretto le repubbliche o le regioni dell'Urss - avevano fatto confiscando la loro parte di potere territoriale. Quest'ultimo processo aveva frantumato l'Urss in quindici Stati, spesso essi stessi minati da delle tendenze secessioniste accese dai burocrati locali. La privatizzazione dell'economia li avrebbe rigettati molto indietro.

Nel 1992 il nuovo potere russo annunciò dunque una "privatizzazione di massa". Essa riguardava soprattutto le piccole e medie imprese. Queste finirono generalmente nelle mani, vuoi dei suoi dirigenti - camuffate o meno sottoforma di proprietà parziale o totale del personale, avendo ogni cittadino ricevuto un "cupone di privatizzazione" - vuoi dei responsabili politici locali (comune, regione, etc.).

LA PRIVATIZZAZIONE DI UN MINISTERO

E' in questo periodo che la più grande impresa del paese venne privatizzata. L'apparato di ciò che si chiamava il ministero del Gas, al tempo dell'Urss - con la sua moltitudine di burocrati medio alti nelle regioni di estrazione o in quelle di transito dei gasdotti e, sicuramente, in "centro", a Mosca - decise, ministro in testa, di privatizzare l'attività del suo ministero, creando Gazprom. Il 15% delle azioni furono riservate al personale e il 35% vendute tramite aste "blindate", accessibili soltanto a persone gradite al personale dirigente del ministero e ai loro omologhi regionali, che poterono anche acquistare a bassissimo prezzo e senza rischio un "pacchetto di controllo", come si diceva allora. Lo Stato conservò il resto delle azioni. Avendo una posizione iniziale assai favorevole, l'apparato tentacolare della burocrazia ex-sovietica del settore gasiero ne restò il padrone, pur sotto un ragione sociale privata. Tutto ciò agevolò molto l'ex-ministro sovietico del Gas, Viktor Tchernomyrdin, diventato Primo ministro e restatolo per molti anni.

A quell'epoca, riviste come il Time presentavano Tchernomyrdin come "l'uomo più ricco della Russia". In effetti, ragionando secondo lo schema di quanto accadeva nel resto del mondo, giornalisti in cerca di sensazionalismi gli attribuivano una parte decisiva del capitale del primo produttore - distributore - esportatore mondiale di gas. Decisivo sulla carta, forse, ma non nella realtà sociale e politica della Russia. Infatti, statuto privato o meno di Gazprom, durante la lotta per la successione a Eltsin, Tchernomyrdin fu sconfitto dall'astro nascente Putin, che lo cacciò dalla direzione di Gazprom. Venne rimpiazzato da un uomo del clan pietroburghese di Putin, legato come lui agli "organismi", altrimenti detto all'ex-KGB (polizia politica e servizi segreti), i cui capi ritenevano di non aver avuto una fetta sufficientemente grande di torta al momento delle privatizzazioni eltsiniane.

L'ENTRATA IN SCENA DEI BUROCRATI MILIARDARI

Queste culminarono nell'assalto alla proprietà dello Stato dopo il 1994, quando il Cremlino decise di vendere delle imprese industriali giganti che non avevano ancora trovato acquirenti. Nessuno nel gran mondo, all'infuori dei dirigenti e dei responsabili politici delle regioni dove esse si trovavano, era interessato alla maggior parte di queste imprese, concepite per funzionare al livello di un paese immenso come la Russia, con un sistema pianificato e centralizzato di prescrizioni, di comandi, di stanziamenti di materiali e di dotazioni finanziarie necessari per farle funzionare. Essendo scomparso il Piano con la scomparsa dell'Urss, esse erano diventate dei giganti dalle ali spezzate. Lo Stato centrale non aveva più i mezzi per farle funzionare; nessun investitore, russo o straniero, li aveva. E anche quando qualcuno fosse stato interessato a rilevare questi combinat giganteschi, per farli funzionare secondo la logica del profitto avrebbe dovuto smembrarli, gettando per strada gran parte del personale. Le autorità locali cercavano di evitarlo. Non certo per riguardo agli interessi della popolazione, ma per il timore di provocare esplosioni di collera di cui sarebbero stati i primi a pagarne le spese.

Dunque furono per lo più i responsabili economici e politici regionali e dietro di essi, direttamente o indirettamente interessata, tutta una frazione dell'apparato dello Stato, a guadagnare la direzione di queste imprese, una volta privatizzate.

Accadde diversamente nei settori d'esportazione molto redditizi - petrolio, alluminio, nichel, etc. In questo caso ci fu un'aspra guerra tra i vari candidati, vere e proprie battaglie che opposero, talvolta armi alla mano, bande di veri gangsters che sostenevano un campo contro un altro. Ma, più che altro, ciò che fu determinante in questa zuffa generalizzata per accaparrarsi i pezzi migliori dell'economia, fu il favore di un principe, il semaforo verde dato ad uno o all'altro contendente da un Eltsin malato o dai membri della Famiglia.

I favori del potere permettevano di mettere le mani per quasi niente su delle imprese come Norilsk, numero uno mondiale del nichel, e su molte compagnie petrolifere. Erano quelle che rendevano di più, con indici altissimi e senza altro investimento che le complicità al vertice dello Stato. Grazie al programma lanciato dal governo nel 1994, chiamato "prestiti in cambio di azioni", i Gussinski, Berezovski, Potanin, Aven, Deripaska, etc., e dietro di loro gli apparati politico-amministrativi della burocrazia dello Stato che li avevano lanciati e ne rappresentavano gli interessi, finirono per impossessarsi dei settori più redditizi dell'economia.

Questo non era il risultato delle capacità individuali, come credevano certi commentatori. Berezovski non aveva edificato il suo impero come aveva fatto, un secolo prima in America, un Rokefeller, al quale alcuni non esitavano a compararlo. Rokefeller aveva guadagnato la vetta come capitano d'industria e barone della finanza in una guerra di concorrenza feroce con altri concorrenti, capitalisti essi stessi sorti da un terreno fertile dove si trovavano e si sviluppavano già una moltitudine di imprese con tanto di proprietari e azionisti. Berezovski, invece, non è per niente il prodotto di un tale processo di maturazione sociale che implica centinaia di grandi borghesi, migliaia di capitalisti con ampi mezzi e di altre centinaia di migliaia di capitalisti di piccola taglia, che non solo preesistevano all'emergere, al di là dell'Atlantico, dei Rokefeller, Morgan e altri Du Pont de Nemours, ma la cui attività era anche stata necessaria al loro emergere. In Urss, le grandi imprese, i trusts, che controllavano questo o quel settore dell'economia, non erano il prodotto dell'evoluzione organica dell'economia capitalista. Erano al contrario il prodotto di una politica volontaristica dello Stato sovietico, su basi sociali stabilite dall'espropriazione radicale della proprietà capitalista da parte della rivoluzione proletaria. Dopo la caduta dell'Urss, Berezovski e i suoi simili si contentarono di arraffare delle imprese, dei settori dell'economia dello Stato. Questo fu possibile solo perché avevano dei complici ai più alti livelli, ma soprattutto perché non erano che la punta di enormi iceberg burocratici di cui erano i rappresentanti.

TITOLARI DI FIRMA CHE DECIDONO TUTTO

A corto di soldi, negli anni '90, il governo russo chiese denaro in prestito agli stessi burocrati-affaristi a cui aveva lasciato saccheggiare le casse dello Stato. Lo Stato si impegnò a restituire loro le somme ricevute in due anni e con lauti interessi, altrimenti avrebbe ceduto loro delle imprese di sua proprietà. La scadenza giunse nel 1996, anno in cui Eltsin, che ambiva al secondo mandato, si trovò al livello più basso dei sondaggi e temeva di non essere rieletto.

I più ricchi affaristi del paese misero allora i propri giornali, i propri canali televisivi e i loro fondi al servizio della rielezione di Eltsin. In cambio egli, non solo avrebbe ceduto loro tutte le imprese che avessero voluto, ma avrebbe fatto entrare uno di loro al governo, Potanin, mentre Berezovski sarebbe entrato nel Consiglio di sicurezza. Quest'ultimo aveva iniziato ad arricchirsi rivendendo, all'estero e a prezzi occidentali, automobili acquistate nelle industrie russe a prezzi locali. Cosa che, sicuramente, non poteva esser fatta senza l'autorizzazione delle autorità. Fu anche il primo a proporre, in Russia, la vendita di automobili per sottoscrizione, intascando il denaro senza consegnare i veicoli e senza temere di essere perseguito, grazie alle sue relazioni. In società col genero di Eltsin, si accaparrò gli incassi in valuta della compagnia aerea nazionale Aeroflot. Poi mise le mani sul principale canale televisivo pubblico e acquistò per cento milioni di dollari la terza compagnia petrolifera del paese, che oggi si stima abbia un valore 150, 200 volte maggiore! Sotto Eltsin, disse in un recente reportage televisivo su quel periodo, "un responsabile dello Stato poteva decidere con una semplice firma di divenire proprietario di qualcosa". Cambiando il titolare della firma, poteva quindi cambiare il proprietario, come Berezovski e i suoi pari verificarono a loro spese.

I media non raccontano quasi più le tristi imprese dei più noti tra questi super-parvenus. Sono stati "liquidati come classe", come Putin aveva dichiarato di voler fare, parafrasando quanto disse Stalin, ai suoi tempi, riguardo alla classe dei contadini ricchi, i kulaki? Ad ogni modo, a differenza dei "baroni-ladri" americani del secolo scorso - i Morgan, Rockefeller, Ford, etc. - che fondarono e svilupparono delle imprese industriali - finanziarie, legate indissolubilmente al capitalismo dell'epoca imperialista, i magnati dell'epoca di Eltsin se non sono spariti, si sono almeno fatti più piccoli in relazione al potere politico.

Il crack finanziario dell'agosto 1998 in Russia aveva segnato l'inizio del declino per questi tristi eroi dell'epoca eltsiniana. Si era prodotto sulla scia dell'onda speculativa internazionale che aveva provocato il tracollo delle piazze finanziarie asiatiche nel 1997, e soprattutto a seguito di un decennio di saccheggio delle casse dello Stato e dell'economia russa da parte della burocrazia. I lavoratori, i pensionati, la piccola gente, che il tracollo dell'Urss aveva gettato nella miseria e nella disperazione, sprofondarono ancor più giù. Quanto alla piccola borghesia, la crisi la spazzò via, anche se in seguito riprese vigore. La burocrazia e gli affaristi di alto rango, per quanto li riguarda, approfittarono abbondantemente del crack del 1998.

I vari meccanismi finanziari permisero loro di rimborsare con somme ridicole (il rublo aveva perso due terzi del suo valore) i prestiti contratti per speculare sulle obbligazioni di Stato, e di non pagare quanto dovuto ai lavoratori e ai fornitori. Molti affaristi misero le loro società in fallimento per rilevarle subito dopo, ma sotto un altro nome e domiciliandole a Gibilterra, o nelle isole Vergini, o in altri paradisi fiscali, provvedendo che fossero fuori dal controllo delle autorità russe. Dopo aver fatto razzia di tutto ciò che potevano in Russia, i privilegiati del regime tentavano, sulla scia di una crisi che avevano contribuito abbondantemente a provocare, di mettere in salvo all'estero, non soltanto tutto il loro bottino, ma anche quanto doveva garantir loro la continuazione del saccheggio - la proprietà delle imprese che si erano accaparrati.

L'economia russa era in rovina, lo Stato in fallimento, nel vero senso del termine, un saccheggio di tale ampiezza non poteva durare. C'erano stati tentativi ad alto livello per riaddirizzare la rotta. Nel 1997 Tchubais aveva organizzato la privatizzazione dell'operatore telefonico Sviazinvest a condizioni del tutto diverse dal passato. Presentata come la prima privatizzazione trasparente, fu conquistata da un consorzio internazionale e non dai soliti favoriti della Famiglia. In una sola volta, procurò allo Stato più di tutte le operazioni precedenti. Furiose, le "oligarchie" ottennero la cacciata di Tchubais.

L'ECONOMIA CONTROLLATA DALLA BUROCRAZIA

Un po' più tardi Putin, approdato alla presidenza dal 2000, si rivolse ai magnati degli affari con un linguaggio che suona così: pagate le vostre imposte, non vi immischiate nella politica e tutto andrà bene. Perché tutti comprendessero chiaramente che i burocrati - affaristi non avrebbero potuto prendere a loro piacimento profittando della debolezza dello Stato, Putin fece trasmettere per televisione gli incontri che organizzò con loro. Due milioni di telespettatori videro così il nuovo presidente dar loro ammonimenti. Per sottolineare il richiamo, i giorni seguenti mostrò loro dei commandos di forze speciali effettuare, in piena Mosca, perquisizioni ai danni del gruppo di tale o tal'altro affarista accusato di malversazione o di frode fiscale. I processi intentati a Berezovski e Gussinski, o quello spettacolare a Khodorkovski, furono le successive tappe del ridimensionamento dei super - ricchi da parte del potere centrale, non potendo fare altrettanto nei confronti degli alti strati della burocrazia ai quali questa gente si appoggiava.

Putin ha dunque fatto piazza pulita degli uomini che erano stati i favoriti dei suoi predecessori, in ogni caso ha neutralizzato quelli che non gli dovevano niente, alcuni tra i quali, come Khodorkovski, volevano ricordargli che doveva a loro la sua elezione. Poiché i più in vista tra questi privilegiati dell'era Eltsin apparivano come ladri agli occhi della popolazione, Putin sperava che facendo cadere qualche testa il suo potere ne avrebbe guadagnato in popolarità. Inoltre molte vecchie "nomenclature", che non erano riuscite ad arricchirsi altrettanto rapidamente di questi miliardari, consideravano questi ultimi come dei parvenus che occupavano indebitamente dei posti profittevoli. Non è dunque stato difficile per Putin ingraziarsi questi burocrati che si ritenevano lesi da alcuni nuovi ricchi se, dopo il 2000, egli ha dato posti di responsabilità politica ed economica soprattutto a gente appartenente al suo clan.

Tra questi uomini del presidente ci sono anzitutto quelli che in russo vengono chiamati "siloviki". Si tratta di rappresentanti di apparati ministeriali "di forze" (armate, di polizia, servizi segreti) sui quali Putin, che è uno di loro, si appoggia da anni. Secondo uno studio uscito nel 2004, il 60% dei dirigenti dell'entourage di Putin e un terzo degli alti funzionari appartengono a questo ambiente. Al suo interno sono stati reclutati i sette super - prefetti federali incaricati di nominare i governatori di regione. Si trova questa gente alla testa del governo, ai posti di vice - Primo Ministro, di ministro della Difesa, di responsabile di tutte le imprese dell'enorme settore militare - industriale. Detengono anche la presidenza del Zarubejneft, la società di Stato incaricata delle operazioni petrolifere all'estero; di Aeroflot, una delle più importanti compagnie aeree del mondo; di Rosoboronexport (esportazione di materiale militare); d'Almaz - Antei (produzione di sistemi di difesa antiaerea) o del Servizio federale di ordine pubblico per la Difesa. E non si tratta che di uno dei gruppi vicini al clan presidenziale.

In effetti, ai "siloviki" si aggiungono personaggi appartenenti al clan detto di Sanpietroburgo, dove è nato Putin, ha fatto gli studi, è stato reclutato dal KGB e dove, alla vigilia della caduta dell'Urss, si lanciò in politica e negli affari come vice - sindaco incaricato di relazioni economiche internazionali. Quella di appoggiarsi a clan territoriali è una vecchia abitudine dei dirigenti della burocrazia. Anche Stalin reclutò i suoi primi sostegni contro Lenin e Trotskij in seno al "gruppo di Tsaritsin" che aveva formato attorno a sé, nella città che porta lo stesso nome, durante la Guerra civile. Quanto a Breznev, lui si appoggiò al "clan di Dniepropetrovsk", una grande città industriale dell'Ucraina dove si era fatto le ossa come primo responsabile locale della burocrazia.

In un articolo pubblicato nel dicembre 2005, intitolato "Come Putin ha fatto man bassa dell'economia nazionale", il giornale Novaia Gazeta, descriveva in questi termini i circoli di potere sotto Putin: "Le amicizie personali, la devozione e lo spirito di clan del KGB hanno creato la più grande holding della Russia [...] completamente omogenea sui criteri di scelta dei dirigenti (tutti vicini al presidente) e sulla forma della proprietà (pubblica)". Dopo aver precisato che, settore petrolifero e gasiero, complesso militar - industriale ed energia nucleare, trasporti, industrie meccaniche, "settori dell'avvenire: prima di tutto i gasdotti, gli oleodotti e la metallurgia", "la maggior parte delle branche più redditizie e prolifiche dell'economia russa sono 'regni'" degli uomini del Presidente, i redattori aggiungono: "Al contrario delle oligarchie del primo periodo, gli 'amici' del Presidente non posseggono niente. Lo controllano."

UNA BORGHESIA INCONSISTENTE E UNA BUROCRAZIA ASSAI PIU' POTENTE

Che questo giornale, d'opposizione liberale, deplori questo fatto non cambia una virgola del suo carattere. E' quello di un'economia dove la maggior parte delle imprese è stata privatizzata, ma dove quelle più importanti, anche quando sono a statuto privato, restano sotto il controllo degli uomini e dei clan che detengono l'apparato dello Stato.

Quando in occasione del G8 sull'energia tenuto per la prima volta sotto la presidenza russa, Libération dell'11 febbraio descriveva Gazprom come "strumento politico in mano al Cremlino" ricordando il suo ruolo nella "guerra del gas" che aveva visto la Russia opporsi all'Ucraina, questo giornale prendeva atto di una realtà sociale politico-economica almeno fino ad oggi ben più potente della proprietà privata sotto la cui dicitura Gazprom è registrata come prima industria della Russia.

Nel reportage televisivo già citato, il capo del partito liberale Yabloko, Grigori Yavlinski - il quale vorrebbe convincerci che la democrazia va indissolubilmente a braccetto con il ristabilirsi del capitalismo - commentava con queste parole il ruolo giocato dal potere centrale nelle privatizzazioni in Russia: "Scegliere 100 persone e offrire loro di controllare insieme l'economia, non fa sì che nasca una classe di imprenditori. Non crea nessuna classe, crea soltanto un clan".

Il fatto che il potere, retto dalla burocrazia, sia strutturato in forma di clan e si rapporti con una borghesia russa inconsistente che fatica a svilupparsi in modo significativo, è un fatto ricorrente, un dato permanente del modo di funzionamento della Russia. E' anche uno dei tratti caratteristici di quello che è diventato questo paese. Ed è esso d'altra parte che spiega con quale facilità, alla fine, i settori più redditizi dell'economia russa che erano stati privatizzati e che per lo più restano tali, sono potuti tornare in mano agli alti apparati della burocrazia di Stato più legata al potere politico centrale.

E' altrettanto significativo, al riguardo, che continui a regnare la più grande confusione su chi possegga le aziende. Contribuendo alla confusione, i media occidentali hanno la tendenza, come abbiamo già sottolineato, a confondere l'individuo che è stato messo alla testa di questo o quel gruppo - al quale si può attribuire, sulla carta, una fortuna considerevole e presentarlo come il proprietario assoluto- e il clan che, di fatto, l'ha sostenuto e senza il quale quell'individuo non sarebbe niente. Questa confusione, quando non è generata volontariamente per confondere le idee, si spiega col modo in cui sono strutturati gli strati dominanti e dirigenti russi, che non ha uguali altrove. Questa "opacità" (su chi possegga realmente cosa, sull'eventuale differenza tra coloro che controllano un gruppo industriale e coloro che, formalmente, ne sono i proprietari) è regolarmente oggetto di recriminazioni da parte dei partners occidentali dei grandi gruppi russi, che, dentro questa nebulosa burocratica perdono il loro fiuto per gli affari. Va molto peggio, d'altronde, quando perdono ben altro, come il direttore dell'edizione russa di Forbes, assassinato nel luglio del 2004, subito dopo aver pubblicato un'inchiesta sui primi cento patrimoni del paese.

Essi si basano sul controllo, più che sul possesso, dei settori più redditizi dell'economia russa. Questi settori, principalmente di esportazione di materie prime, sono indispensabili per correggere l'andamento delle finanze pubbliche e, più in generale, per il funzionamento generale dello Stato (il 90% delle esportazioni russe, nel 2005, hanno riguardato materie prime e hanno fruttato in tasse più della metà del bilancio federale). Questo, oltre a spiegare perché i clan della burocrazia attualmente più vicini al potere centrale vogliano acquisire posizioni attorno a questa fonte di rendita che fino ad ora era stata monopolizzata da altri clan dirigenti, spiega anche perché lo Stato centrale, da che ne ha avuto la possibilità, ha voluto sottrarre questi settori ai magnati del periodo precedente. Nel suo studio del 2004 sulla ricchezza mondiale, Forbes affermava, in effetti, che i due terzi delle fortune della trentina di miliardari (in dollari) russi provenivano dai settori di esportazione di materie prime e che questi stessi individui - in realtà i gruppi che vi stanno dietro - controllavano il 24% del prodotto interno russo.

Ma questi settori d'esportazione: gas, petrolio, oro, diamanti, metalli rari, che non smettono di assumere un'enorme importanza nell'economia russa al punto di divenirne il perno, se anche permettono a certi gruppi ed individui di arricchirsi in modo strepitoso, sono tuttavia tratti caratteristici del sottosviluppo. Una forma di sottosviluppo che presenta tratti originali, essendo apparsa o essendosi considerevolmente aggravata con la caduta dell'Urss che non aveva lo stesso livello di tecnologia in tutti i settori, ma che tuttavia esportava assai più prodotti finiti - anche se verso i paesi che si trovavano sotto la sua sfera d'influenza - di quanti ne esporti attualmente la Russia. Infatti, ad esempio, le vendite russe nelle uniche industrie di trasformazione che hanno una posizione non trascurabile nelle esportazioni, quelle di macchine utensili e di beni d'equipaggiamento, nel 2005 sono ulteriormente diminuite del 10%.

Dunque l'economia della Russia è divenuta ancora più fragile, come quella di tutti i paesi semi-sviluppati esportatori di materie prime, per la dipendenza sempre più stretta dai mercati mondiali e dalle loro oscillazioni. Inoltre, la priorità data dallo Stato al settore dell'esportazione di materie prime (in mano a uomini vicini al potere) prosciuga le capacità finanziarie per lo sviluppo di altri settori che permetterebbero a una classe capitalista, per quanto poco consistente, di rafforzarsi. Questi settori, inoltre, si sviluppano ancor meno per il fatto che gli eventuali investitori stranieri sanno bene che sono molto meno redditizi, a breve e medio termine, di quelli delle materie prime, che costituiscono una vera e propria rendita per i padroni del regime.

Se, con l'impennata dei prezzi degli idrocarburi, la Russia ha potuto uscire assai rapidamente dagli strascichi del crack del 1998, non ha tuttavia ritrovato il livello di produzione che aveva alla vigilia della caduta dell'Urss. E malgrado l'afflusso di ricchezza permesso dalla "manna" gasiera - sotto il controllo dello Stato - e petrolifera - in gran parte tornata sotto controllo statale -, la Russia nella classifica della Banca Mondiale si situa all'82 posto in termini di potere di acquisto per abitante: dietro il Messico, la Malesia, e anche dietro alla Lettonia (75 posto), una ex repubblica baltica dell'Urss, che non ha petrolio, ma che è stata reintegrata pienamente nel funzionamento dell'economia capitalistica mondiale, seppur certamente in posizione subordinata alle grandi potenze europee.

La Russia di Putin non è certo messa tanto male come quella dei tempi di Eltsin. Le sue più grandi città a volte possono somigliare alle metropoli dei paesi ricchi e, secondo la rivista Forbes che recensisce 793 miliardari in dollari nel mondo, la Russia ne conta 36, 7 in più in un anno. Questo formidabile arricchimento di qualcuno, come Abramovitch passato dalla 21 posizione mondiale all'11 in un anno, è stato pagato con l'impoverimento generale della popolazione, anche se, con l'impennata dei prezzi delle materie prime, i salari vengono versati con maggiore regolarità. Questi sarebbero anche aumentati in termini assoluti, almeno ufficialmente: del 13,2% nel 2004, dell' 8,7% nel 2005, talvolta con dei "recuperi", come il primo gennaio scorso, del 130%, 150% per gli insegnanti e il personale medico ospedaliero, settori dove i salari erano ancora più miseri che altrove. Questo si è accompagnato a un certo ritorno di combattività (scioperi, manifestazioni) nella classe operaia e, più in generale, tra i lavoratori, il cui malcontento si è espresso ampiamente nell'inverno 2004-2005 contro le conseguenze di una serie di "riforme" che colpivano il livello di vita dei più poveri (soppressione di agevolazioni in natura nel settore sanitario e dei trasporti per i pensionati, gli invalidi, gli studenti; privatizzazione di alcuni servizi sociali, soprattutto legati agli alloggi). Manifestazioni, blocchi del traffico stradale e ferroviario che hanno toccato più di 70 degli 89 "soggetti" (regioni) della Federazione russa.

LA LEGGE E IL DIRITTO EFFETTIVO

Ma, una quindicina d'anni dopo la caduta dell'Urss, l'economia della Russia non funziona ancora, in ogni caso non nei settori decisivi, sulle stesse basi economiche dei paesi capitalisti dove sussiste il carattere privato della proprietà dei mezzi di produzione cosa che determina in ultima istanza l'andamento della società.

Ma è anche vero che i dirigenti della burocrazia, in Russia, hanno tentato di anticipare il corso degli eventi. Dalla caduta dell'Unione Sovietica, hanno adottato delle leggi sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, di trasporto e di scambio e anche, più tardi, della terra; hanno messo all'incanto la proprietà dello Stato con diverse ondate di privatizzazioni. Ma molti anni dopo questo sconvolgimento, i nuovi rapporti sociali che hanno cominciato a mostrarsi non si sono ancora stabilizzati.

E non sono ancora stabilizzati perché, per far sì che il diritto di proprietà sia legittimo, e divenga intangibile, non è sufficiente che sia scritto in una legge. La proprietà è l'espressione dei rapporti sociali. Ma sono proprio i rapporti sociali che non sono ancora stabilizzati in Russia. Con il ristabilirsi della proprietà privata delle imprese, la legge ha anticipato un'evoluzione che non è ancora conclusa. E la "proprietà privata" riconosciuta da un clan al potere può essere abolita da un altro.

Se nei paesi capitalisti la proprietà privata è, da lunga data, sostenuta, oltre che dalle leggi e dalle istituzioni, dal conformismo sociale, in Russia, dove il settore privato è ufficialmente assai maggioritario (70%) nell'economia, il conformismo sociale gioca in senso opposto.

Quanto all'apparato dello Stato, che in teoria sarebbe chiamato a far rispettare la legge, si vede come il suo più eminente rappresentante calpesti il diritto di proprietà quando ne va di mezzo l'interesse dei suoi mandanti, la burocrazia e i suoi uomini. Lo si può constatare ai più alti livelli nel braccio di ferro giuridico internazionale che vede il Cremlino opposto agli azionisti e agli amministratori della holding con sede a Gibilterra che deteneva, in principio, la compagnia petrolifera Iukos e le sue filiali. In effetti, vedendosi stringere addosso la morsa poliziesca del regime russo, Khodorkovski aveva creduto di trovare la salvezza nell'affidare a cittadini americani, tra i più vicini alla Casa Bianca, i posti al vertice di alcune delle sue società giuridicamente straniere. Essi organizzarono, ovviamente, delle campagne in favore del "povero" Khodorkovski presso i media occidentali, che non si fecero pregare per affermare che, se egli era un mascalzone e un ladro, non era l'unico tra i suoi simili e , soprattutto, che il diritto di proprietà, anche se mal acquisito, restava sacro. Si sono anche visti vertici politici degli Stati Uniti, dell'Unione europea, del Canada, etc., appellarsi a Putin perché rilasciasse Khodorkovski e desse seguito alle decisioni di alcune corti americane che negavano a un tribunale russo il diritto di requisire le proprietà a un magnate di una propria compagnia. Interventi al vertice, campagne di stampa, sentenze degli Stati Uniti: niente da fare, Khodorkovski è stato privato della sua libertà e di Iukos.

Si sa anche come gli uomini dell'apparato di Stato russo, a tutti i livelli, monetizzassero sistematicamente i loro interventi e le loro decisioni, comprese le loro interpretazioni sul diritto di proprietà, in cambio di buone "mance". Sotto questo aspetto sono la prova vivente del successo della privatizzazione dello Stato e delle sue funzioni. Infatti in Russia tutto è vendibile, o quasi. E' drammatico per la popolazione che paga quotidianamente ad alto prezzo la cupidigia della burocrazia. Ma c'è anche un problema maggiore per il ritorno - in effetti una regressione - verso l'economia di mercato. Infatti "un'economia di mercato ha bisogno d'uno Stato e di attività non mercantili per funzionare: di giustizia, di ispettori di polizia che non siano governate dal denaro", come constata François Benaroya in un'opera dell'inizio 2006 "L'economia della Russia". L'esperienza concreta di questo economista, che ha lavorato in Russia a più riprese questi ultimi anni, gli è in ogni caso servita a partecipare alla stesura di un "business giallo" sulla questione ("Crimini senza punizione"), dove alti burocrati, uomini d'affari e gangsters si imbrogliano e si sgozzano a vicenda

La Russia non è certo la sola in queste condizioni, in materia di corruzione è seconda solo a pochi paesi. Ma soprattutto, in Russia, questa corruzione generalizzata non si innesta, come negli altri paesi, su un'economia di mercato già esistente, che bene o male funziona. Questa corruzione è uno degli aspetti del modo predatorio di funzionamento di tutta la burocrazia. E' espressione del carattere fondamentalmente parassitario di questa stratificazione sociale che si è sviluppata, da molto tempo, come un tumore sul corpo sociale dello Stato sovietico - uno Stato operaio, perché nato da una rivoluzione vittoriosa, quella dell'Ottobre 1917, ma che è degenerato perché la rivoluzione socialista, che allora bussava alle porte di molti paesi, non arrivò a trionfare altrove che in Russia.

L'instaurazione di una economia di mercato non è, almeno non soltanto, una questione di leggi. Sebbene, quando una quindicina d'anni dopo il crollo dell'Urss, gli investitori stranieri non cessano di deplorare "la mancanza di chiarezza riguardo al diritto di proprietà" o "le forti incertezze che pesano sul diritto di proprietà e sull'avvenire degli oligarchi" - per riprendere i termini d'uno studio co-firmato da un "esperto di rischio paese" della Coface (l'organizzazione parastatale che, in Francia, assicura gli scambi commerciali internazionali) - questo aspetto finisca per creare, agli occhi del capitale internazionale, un ostacolo in più. Tutto ci= si manifesta nella persistente debolezza degli investimenti stranieri in Russia e, in senso inverso, nella fuga persistente di capitali di provenienza russa, dato che gli azionisti delle imprese e i proprietari terrieri non hanno ancora alcuna fiducia nel loro stesso sistema, in ogni caso non al punto di investire in esso il frutto del loro saccheggio.

Ed uno dei caratteri di questa faccenda, d'altronde tutt'altro che trascurabile, non si trova nei testi di legge o in un registro di proprietà fisiche i cui termini in Russia non sono ancora definiti, ma nella stessa testa di milioni e milioni di cittadini di questo paese. Infatti, secondo un recente sondaggio nazionale, il 78% della popolazione russa, di tutte le categorie sociali e le fasce d'età, pensano che sia necessario rimettere in discussione almeno la privatizzazione dei grandi gruppi. Per parafrasare Proudhon, alla domanda: "Cos'è la proprietà?", essa risponde in numero sempre maggiore: è il furto.

Quello che si sa è che in Occidente, nei principali paesi capitalisti, lo sviluppo dell'economia di mercato è stato un processo di secoli. I grandi trusts che la dominano, i grandi gruppi come Suez, che recentemente hanno fatto notizia in Francia, non sono nati dal nulla. Sono il prodotto di tutto un tessuto di piccole, medie e grandi imprese che non hanno smesso di concentrarsi. Innumerevoli piccole imprese, ancora così scarse in Russia che nel luglio 2005, Global, la "rivista di informazione del gruppo Renault", spiegava che, per produrre qualche migliaio di Logan in Russia, bisogna che l'officina Avtoframos, legata a Renault e al municipio di Mosca, e inaugurata nell'aprile 2005, "assembli pezzi separati provenienti dal centro CKD [Renault] romeno di Potesti, distante 2000 km", cosa che determina "non poche difficoltà"! Con un "tasso di integrazione locale dell'officina" che "resta debole, nell'ordine del 25%, 30% poiché il tessuto dei fornitori è in via di costituzione", non sorprende che "non venga presa ancora nessuna decisione di investire nell'estensione del sito" e che Renault come i suoi concorrenti importino in Russia molto più di quanto non producano sul posto.

Queste diffuse piccole e medie imprese che non esistono, almeno non ancora, in Russia, sono state e sono, nei paesi capitalisti sviluppati, non soltanto allo stesso tempo lo scheletro, i muscoli e i nervi dell'economia, ma hanno anche forgiato tutta la vita politica e sociale, organizzandola intorno a sé e intorno a dei valori (giustificazione della proprietà privata, glorificazione del profitto, etc.) che sono, da un capo all'altro del pianeta, quelli della borghesia, valori più o meno accettati come "naturali" dalla società in tempi normali.

Ora, se i quindici anni che sono trascorsi dalla caduta dell'Urss dimostrano qualcosa, è che, in Russia, il funzionamento dell'economia e della società su basi capitalistiche, l'applicazione delle leggi che garantiscono la proprietà privata, non è solo una questione di diritto e di intervento della giustizia - che, certamente, faticano ad essere applicati, come continuano a lamentare gli investitori occidentali in Russia -, ma è anche, se non soprattutto, un affare di consenso sociale, di legittimità del diritto di proprietà, riconosciuta dall'immensa maggioranza della società,.

Ebbene, in Russia non è ancora così.

La Russia non fa più parte delle regioni del pianeta che si trovano ai confini del movimento generale del capitalismo, che per lo più lo sono restate, e dove l'introduzione dell'economia di mercato è avvenuta sotto la pressione delle potenze coloniali e poi dell'imperialismo, che hanno sgombrato il terreno per i loro trusts. La Russia non si inscrive in un tale scenario. Non è un paese sottosviluppato, ma al contrario un paese nel quale la rivoluzione operaia ha permesso, ed essa soltanto poteva farlo, di uscire dall'arretramento nel quale la manteneva il giogo dello zarismo e la dominazione delle grandi potenze del continente europeo.

Quanto allo strato dirigente, che si identifica col passare dei decenni con lo strato sociale privilegiato, la burocrazia, non è per niente pronta a sacrificare tutto o parte dei suoi privilegi sociali sull'altare della penetrazione imperialista. Alcuni dei suoi membri vi troverebbero - e vi trovano già - il proprio tornaconto, ma gran parte dei burocrati avrebbero più da perderci che da guadagnarci. Così, i fastidi di Khodorkovski non sono estranei al fatto che egli abbia perseguito progetti (soprattutto di costruzione di pipe-lines verso l'Est asiatico o in alleanza con dei colossi americani) che entravano in conflitto con la politica petrolifera difesa dal Cremlino, con l'assenzo, apparentemente, degli altri gruppi petroliferi russi.

Pur potendo la burocrazia ricavare certi vantaggi dall'adesione della Russia all'OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio), il prezzo da pagare - lo smantellamento dei "monopoli naturali" (del gas, dell'elettricità, di certe materie prime: in particolare quelle, altamente redditizie, in mano agli alti commessi della burocrazia); la fine dei sistemi di sovvenzione statali alla produzione di energia, etc. - le parrebbe esorbitante. A tal punto che la Russia, benché abbia aperto le trattative con l'OMC nel 1992, non ne è ancora membro, a differenza di altri paesi, come la Cina che avrebbe potuto essere ammessa assai più tardi se si guarda quando ha posto la sua candidatura. E, nel dicembre scorso, di fronte alla condizione posta dai negoziatori dell'OMC di un libero insediamento delle banche occidentali in Russia, si è sentito Putin rifiutare tale richiesta che aveva provocato un tumulto nelle direzioni di un migliaio di banche russe (dette "di tasca" perché create dalla burocrazia per organizzare la fuga di capitali).

URSS, RUSSIA: UN'ANALISI TROTSKISTA CHE RESTA DI ATTUALITA'

Inoltre, la Russia è un paese dove l'economia per tre quarti di secolo non ha funzionato secondo la legge del mercato e del profitto, ma si è sviluppata su altre basi materiali con altre relazioni tra i gruppi sociali. L'umanità non ha alcuna esperienza del modo in cui, dopo una tale svolta in un paese delle dimensioni della Russia - il più esteso del pianeta e, malgrado il calo demografico attuale, uno dei più popolosi -, possa effettuarsi la liquidazione completa di tutto ciò che, nell'organizzazione sociale e nell'economica, porta ancora le tracce lontane delle trasformazioni attuate a suo tempo dalla rivoluzione operaia. Tutto ciò che si sa è che i tentativi fatti in questo senso in Russia hanno dato luogo, e non poteva essere diversamente- come, assai in pochi, affermavamo al momento della caduta dell'Urss - a nient'altro che una formidabile regressione sociale ed economica. Ciò che si può constatare è che, in questa regressione, la società russa, nelle condizioni concrete, resta quella venuta fuori dalle rovine dell'Urss, dominata da una burocrazia dell'apparato dello Stato che è di gran lunga il principale strato sociale privilegiato in Russia.

Così, per molti commentatori, la Russia resta "inclassificabile", secondo il titolo del capitolo che le consacra il documento 2006 dell'Istituto francese di relazioni internazionali - inclassificabile, in ogni caso, tra i paesi che, di diritto e di fatto, funzionano secondo le regole dell'economia di mercato.

Fin dalle origini la nostra tendenza si è rifatta alle battaglie di Trotskij contro il tradimento degli ideali comunisti e delle conquiste della rivoluzione d'Ottobre da parte della burocrazia staliniana. Parte pregnante di questa battaglia, perché orientata ad aiutare i lavoratori restati fedeli al bolscevismo a orientarsi di fronte alla politica di tradimento della classe operaia perpetrata dallo stalinismo, Trotskij aveva analizzato, da militante rivoluzionario, ciò che divenne l'Urss staliniana riassumendo l'analisi di questo fenomeno complesso, senza precedenti e assai contraddittorio, in una formula che definiva l'Urss uno Stato operaio degenerato. Negli anni venti erano già cambiate molte cose nello Stato operaio nato dalla vittoria rivoluzionaria dell'Ottobre 1917 - a cominciare dal fatto che il proletariato era stato deposto dal potere da una burocrazia statale e che, in rappresentanza di quest'ultima, la frazione dirigente staliniana aveva iniziato ad eliminare sistematicamente tutti coloro che, soprattutto nel partito comunista, rimasti fedeli agli ideali bolscevichi, avrebbero potuto essere d'ostacolo alla reazione burocratica. E le cose erano così radicalmente, così definitivamente cambiate che Trotskij, negli anni trenta, era giunto a considerare la degenerazione dell'Urss conclusa.

Per tre quarti di secolo la burocrazia ha mostrato tutta la sua natura profondamente controrivoluzionaria e antioperaia, non solo in Urss, ma anche nel panorama internazionale. Sicuramente, nell'ultimo periodo, essa ha compiuto un considerevole, ulteriore passo indietro con la dissoluzione dell'Unione Sovietica, per il solo fatto di trovarvisi alla testa e per il fatto che, in Russia come nel resto delle antiche repubbliche sovietiche, i dirigenti della burocrazia si sono dati come finalità, non soltanto quella di ripristinare il capitalismo, ma di condurre una politica esplicitamente orientata a ristabilire l'economia di mercato.

Ma, una quindicina d'anni dopo questa nuova svolta della burocrazia, bisogna constatare che molti aspetti della vita economica, politica, sociale del paese restano incomprensibili se ne ignoriamo il passato e ciò che l'evoluzione di questa società ha di particolare, di unico nel suo genere. E non si comprende niente di ciò che è diventata, se non ci si rende conto che questo Stato operaio degenerato, che oggi si ricongiunge al capitalismo, conserva, malgrado tutti i recenti cambiamenti, alcuni tratti, alcune caratteristiche ereditate dal passato, che sono ben lungi dall'essere state completamente eliminate e che si manifestano soprattutto nelle difficoltà incontrate da una Russia ormai aperta al capitalismo a funzionare sulle basi del capitalismo stesso.

E bisogna constatare che, per apprezzare gli sviluppi dinamici, le fasi di arresto di questo processo, l'analisi che ci ha lasciato Leon Trotskij, con il suo metodo e i suoi passaggi è e resta il più ricco di tutti quelli che si conoscano o si possano immaginare.

Sicuramente, ai suoi tempi, l'analisi di Trotskij era stata prodotta per dei militanti rivoluzionari che, soprattutto in Urss, avevano un'esperienza di lotta di massa alla testa del proletariato. L'analisi trotskista doveva servire da guida per mostrare alla classe operaia, se fosse riuscita a risollevare la testa malgrado la dittatura, in che modo avrebbe potuto pesare sugli avvenimenti, come avrebbe potuto sfruttare a proprio vantaggio le contraddizioni dello Stato operaio degenerato, soprattutto il mancato radicamento della burocrazia nell'economia.

Questo non avvenne. E, nei due decenni che seguirono, non si è più vista la classe operaia dell'ex Unione sovietica approfittare dell'indebolimento del potere centrale della burocrazia per risollevare la testa.

Sicuramente, col tempo, dopo l'implosione dell'Urss, procedendo sempre più a ritroso, ciò che c'era di originale nella società sovietica verrà meno tanto nella realtà sociale che nelle coscienze. Verranno meno parallelamente i compiti e gli obiettivi particolari che Trotskij nel "Programma di transizione" propose al proletariato rivoluzionario in un'Urss dominata dalla burocrazia - compiti e obiettivi che era di un'importanza capitale difendere al momento del crollo della società sovietica negli anni precedenti e successivi all'implosione dell'Urss.

Se il proletariato non tornerà ad essere una forza capace d'offrire all'umanità una alternativa al capitalismo e alla sua gestione sempre più catastrofica, irrazionale e anarchica del mondo, la questione della natura della società e dello Stato sovietico, e dei motivi della sua originalità, finirà evidentemente per perdere di pertinenza.

Ma per i militanti l'analisi marxista serve a comprendere la realtà sociale per guidare l'azione presente, e non per tentare di indovinare la forma che prenderà la barbarie nel caso in cui il proletariato si rivelasse, per tutto un periodo storico, incapace di giocare il suo ruolo nella necessaria trasformazione della società. Questione che allora andrà ben oltre l'ambito della trasformazione della Russia.